Mi costringete a fare cose. Vi odio.

Su Facebook è stato detto e scritto tutto, me ne rendo conto.
Quel che a me ultimamente sta frullando in testa è un aspetto forse marginale delle dissonanze cognitive che la logica di condivisione facebookiana induce.
Mi sono sorpreso a “likare” e condividere post e pensieri altrui per pure ragioni diplomatiche. Io.

Non so cosa siano le dissonanze cognitive ma pareva una cosa acculturata.

C’è Tizio che pubblica una (pur bella ma non me ne fotte nulla) foto di lui con sfondo delle sue ultime vacanze? “Mi piace”, “condividi” e appresso.
C’è Caia che condivide un aforisma di Oscar Wilde abusato quanto e più della sua vagina? “Mi piace”, “condividi” e appresso.
Sì, lo so che Oscar Wilde era un uomo.
C’è Sempronio che pubblica un pensiero contro gli sprechi della Casta parlamentare? “Mi piace”, “condividi” e appresso.
Ma dato che Wilde era gay non si sa mai.
Mi rendo conto però che spesso lo faccio come forma di ringraziamento per “Mi piace” ricevuti dagli stessi. Una sorta di galateo 2.0 già ampiamente documentato ma che mi sta toccando personalmente in forme talvolta parossistiche, data la mole di “like” che le cazzate che pubblico insieme a quelli di umoremaligno riceve.
E poi mi riferivo alla vagina della ragazza.
In realtà delle vostre cose – lo dico qui – a me non fotte nulla. Ma nulla. Proprio come di voi in generale. Niente. Siete solo rumore.
In ogni caso questi riferimenti saltellanti tra discorso principale e riferimenti a Wilde creano solo confusione, me ne rendo conto e smetterò qui.
O si tratta di robe già ampiamente viste e straviste, o di cose talmente ridicole da indurmi un effetto lisergico: dopo un po’ vedo tutto deformato e comincio a cercare attorno a me una rana da ciucciare come antidoto.
A volte penso che per i vostri primi trent’anni abbiate fissato un muro bianco. Non sapete davvero un cazzo di quel che vi circonda? Mi metti la foto del canale di Venezia? Cosa ho da farmene, di quella foto? Dovrebbe interessarmi? Ma mettimi una foto del Bigfoot, da te scattata mentre vagavi nei boschi della Skamania County. Sorprendimi, cazzo.
Ma se volete continuo con Wilde.

Lo dico qui, ora: non me ne fotte niente di quel che pubblicate. Non mi interessa nulla leggere del vostro gatto. Deve morire malissimo, il vostro gatto. Ma voi, col vostro gatto, mi avete fatto gli auguri di compleanno. Mi sento in dovere di “piacciarvi” qualcosa. E voi pubblicate SOLO quel cazzo di gatto, perdìo, ma che devo fare? Perché vi piace mettermi in difficoltà?

Il tuo nuovo ragazzo è un cesso, fidati. E’ veramente brutto, non si può vedere. Tienilo per te, nascondilo: è parte di te come può esserlo un livido. Coprilo, non pubblicizzarne gli aspetti grotteschi del suo cranio. E’ terribile, davvero. Ma mi metti solo quelle cazzo di foto nelle quali lui pare uscito da un frontale con l’Orient Express. E tu sei sempre così carina con me, a commentarmi, farmi complimenti… Mi costringi a mettere un “mi piace” da qualche parte. E scelgo quella nella quale lui almeno è di spalle*.
*Mi dici poi che no, non era di spalle.

Hai i gusti musicali di mia nonna. Sorda, peraltro. E morta. Cosa mi vuoi far sapere? Che ti è piaciuto tanto “Eh già” di Vasco? Ma secondo te io vado in giro a vantarmi di non aver saputo montare la libreria Billy in meno di due ore? Sono debolezze personali, non vanno diffuse col megafono. Uno si vergogna nel suo cantuccio e appresso. Vasco. Solo Vasco. Aspetto almeno che tu capisca che c’è anche una magnifica “Jenny è pazza”, così un “like” te lo metto senza scartavetrarmi le palle.

Cosa stia facendo in questo momento il tuo moccioso unenne è argomento che mi solletica la curiosità tanto quanto a Ratzinger una vagina.

Perché quest’ultimo riferimento?

Volevo solo chiudere con Wilde.

 

 

 

Finché non mi cacciano (37)

Intanto sono stati liberati i giornalisti italiani catturati. I rapitori, non abituati alla stampa italiana, non li hanno sopportati più a lungo di due giorni.
Sono stati tra i momenti peggiori della mia vita, molto più faticosi di altre volte in cui mi sono trovato in situazioni difficili“, ha dichiarato uno dei rapitori.
(Tra l’altro bisogna capirli, c’era pure uno di Avvenire).
[Su L’Unità, qui]

Tendenza a zero

Quando vai in vacanza da qualche parte lo fai perché, in genere, hai battezzato quella come meta migliore di altre. Per ragioni economiche, di tempo, di condivisione con altre persone. Mille motivi, mai uno solo. Tranne se vinci il viaggio. Se lo vinci non ci sono cazzi, ci vai, sei contento anche fosse Avigliano (sto usando un’iperbole, era per capirsi).
In ogni caso quella scelta è la meta “migliore”, nel senso più ampio del termine. Il che non coincide certo con la meta “ideale” o quella preferita.
Dunque non è detto che quella destinazione poi ti soddisfi, ti appaghi e  che dunque la tua vacanza sia alla fine da considerare riuscita.
Eppure si tende poi, una volta rientrati, a magnificare la meta stessa, ad accentuarne più i pregi che i difetti, quando si parla con chi ti chiede “beh, allora, com’era questa XXX?”.
Probabilmente entra in gioco il fattore-coglionatura.
Il fattore-coglionatura rappresenta la variabile che limita la tua autostima: più le persone ti perculano per qualcosa che hai fatto o detto e maggiore è il fattore-coglionatura.
Limitare il fattore-coglionatura significa impedire a questa variabile di far sì che X (dove X sei tu) tenda a zero (dove per zero si intende considerazione sociale).
Se X (tu) esprime un’accentuata insoddisfazione per la meta-vacanze da X stesso scelta, introdurrà nel suo stesso discorso un elevato fattore-coglionatura, quello che comporta, da parte degli astanti, l’obiezione: “ma allora che cazzo l’hai scelta a fare? Sei il solito coglione”.
Ovviamente il fattore-coglionatura entra in gioco solo qualora la scelta sia stata tua. Se, al contrario, tu sei stato – obtorto collo – costretto a quella meta, allora avrai tutto l’interesse a denigrare la stessa e gettare merda su chi l’ha proposta, facendo tu leva su un fattore-coglionatura altrui.
Esempio: in una comitiva tutti propongono Sharm. Tu spari Maldive. Si va a Sharm. Poco poco qualcosa non va nella vacanza ed eccoti esprimere il tuo fattore-coglionatura sotto forma di “così imparate a fare organizzare a Tizio… la prossima volta si va dove dico io”.
Quest’anno sono stato in vacanza in diverse località. Una di queste, XXX, ha rappresentato per me un vero patimento: posto terribile, clima pessimo, gente ostile, prezzi allucinanti, cuore di stagno, burattino.
Eppure, sulla carta, la scelta è stata fatta con tutti i cristi. Crismi, crismi.
Insomma, era una meta che avevo scelto basandomi su parametri ben precisi e tenendo conto di tante variabili. Ma alla fine – riconosco – ho scelto la merda più pura.
Tornato a casa mi sono trovato a limitare il più possibile il fattore-coglionatura, e ho cercato di sottolineare gli aspetti gradevoli della vacanza.
– Allora, come siete stati a XXX?
– Eh? Ah, benissimo…
– Cos’avete visto di bello?
– Guarda, ti dirò, non è che ci sia poi tantissimo da vedere… gli aspetti positivi là sono altri…
– Tipo?
– Tipo… uh… tipo… la cucina, ecco.
– Si mangia bene?
– Più che mangiare bene è il resto…
– Si paga poco allora?
– Pochissimo no davvero…
– Tanta scelta?
– Beh, al massimo trovi le stesse tre cose…
– Non capisco allora.
– Sai, ci sono certe cose che è difficile spiegare.
– Ho capito: è l’atmosfera.
– L’atmosfera, esatto!
Il trucco, a volte, sta nell’attendere che l’interlocutore scelga per te. Questo limita molto il fattore-coglionatura.
A ore è previsto un nuovo viaggio, stavolta studiato nei minimi dettagli: sono tre mesi che non accendo la tv per cercare su Internet un luogo ideale, fanculo notiziari e giornali. Solo siti con mappe e geografia. E’ una meta che presenta zero fattore-coglionatura e aiuterà la mia autostima a crescere. Ho scelto una destinazione vicinissima ma comunque al di fuori dei percorsi turistici abituali. Clima caldo, l’italiano è anche ben compreso, la vita costa poco e non vola una mosca grazie ad un governo solido.
Ci sentiamo al mio ritorno dalla Libia.

 

 

Finché non mi cacciano (36)

1000 miliardi di dollari di soli tagli, per segare le gambe a chi già le ha claudicanti. Mediacare sfiatata, social security azzerata. Invece spese militari toccate in minima parte: lanceranno non più bombe intelligenti ma quelle con le sole scuole dell’obbligo.

[Su L’Unità, qui]

“Giovannona Coscialunga” tutta la vita

 

Su Sky danno qualche blockbuster, alcuni buoni film, talune misconosciute pellicole di registi emergenti ma soprattutto una caterva di film di terza fascia, quelli riempitivi, presi al chilo per creare volume nel palinsesto e poter annunciare “un’offerta sempre più ricca”.
Mio malgrado ero davanti alla tv l’altro giorno, mentre passavano uno di questi. Sono rimasto ipnotizzato. Ricordate l’effetto “Non è la Rai”? Con tutte quelle ragazzine pre-mestruate saltellanti che odiavi profondamente ma non potevi non guardarle? Bene, siete malati e potete capirmi.
Comunque, la trama era questa: 4 giovani invitano una ballerina di lap dance. Per un caso fortuito questa muore. I giovani si spaventano, decidono di non chiamare la polizia e la gettano in una discarica (a Napoli l’avrebbero lasciata per strada e la vicenda avrebbe assunto ben altri connotati). Uno di loro non è d’accordo e gli altri amici lo fanno secco, simulando il suo suicidio.
Semplice, potrebbe funzionare anche, no?
No.
La chiave di tutta la storia è la mamma del giovane morto ammazzato, che non si dà pace e indaga. E scopre l’aggancio con la ballerina da un cazzo di bigliettino da visita del locale nel quale la troia lavorava.
Senza quel bigliettino il film andrebbe in aceto. Senza appello. La trama si bloccherebbe facendolo assomigliare ad una pellicola qualunque di Pupi Avati.
Invece.
Invece un 17enne che di nascosto va in un locale di lap dance, che non vuole farsi vedere, che fa di tutto per tenere la cosa segreta che fa? Prende il biglietto da visita del locale (mica con il numero di telefono della femmina di turno. No! Quello generico, così, per dare una possibilità di prosecuzione alla trama) e se lo mette nel taschino della camicia.
Te lo do io, caro regista, un migliore aggancio narrativo: sei un coglione, meritavi la morte tu, non l’attore.
Hai ucciso la mia ora e mezza di svago, una dozzina di miei neuroni, la mia voglia di vivere e di confermare l’abbonamento Sky.
Verrò da te a cercarti, ti ammazzerò dopo averti prima torturato a furia di film dei Vanzina.
Poi, uscendo, prenderò da casa tua un tuo biglietto da visita e lo terrò nel taschino.

A ciascuno il suo

 

Ci sono frasi “di genere”, di quelle che in bocca ad una persona di sesso differente rispetto a quanto ti aspetti suonano malissimo. O disvelano nuovi panorami.

Ieri mi facevo i cazzi miei, con la tv sullo sfondo mediatico a riempire gli spazi sensoriali vuoti. Con la coda del cervello capto il discorso di un ragazzo, che parla non so di cosa, roba sentimentale.
Ad un certo punto ha detto:
– no, perché lei da un po’ di tempo si è emotivamente distaccata da me

Insomma, si capiva che avesse problemi con la ragazza o ex.
Ma è una frase che suona malissimo in bocca ad un uomo.
Lei si è emotivamente distaccata“. No, non va, non ci siamo. Suona male. Suona femminile.
Ho smesso di fare quello che stavo facendo e ho prestato maggiore attenzione. Il ragazzo ha poi aggiunto:
– in questo momento mi sento molto vulnerabile.

Mi sento molto vulnerabile“?
Bene, caro ragazzo, non è un problema – sia chiaro. Ma sappi che sei frocio.
Un etero non dirà mai una frase del genere. Non è nel suo patrimonio genetico.

L’eterosessuale non è che non abbia vulnerabilità. Semplicemente le nasconde.
L’etero, inserito all’interno di un contesto sociale competitivo come il nostro, piuttosto crepa. Ma non metterebbe mai in piazza un Tallone d’Achille, indicandolo anche con delle grosse frecce luminose.

Sia chiaro: le differenze di genere sono non da stigmatizzare ma da valorizzare: ciascun essere umano è patrimonio immenso ed irripetibile proprio per la sua diversità ed unicità, e per questo anche le differenze uomo-donna sono un valore da curare e sottolineare.

Dunque, di fronte ad un uomo che dica:
– in questo momento mi sento molto vulnerabile
occorre semplicemente prendere atto della sua diversa concezione del mondo rispetto ad un eterosessuale. E valorizzarne gli aspetti.

In questo modo sarà anche più semplice superare quegli odiosi luoghi comuni, tratteggiati troppo spesso caricaturalmente ancor oggi, che vedono l’omosessuale come macchietta col polso molle e foularino al collo.

Come quello indossato da quel ricchione.

 

 

Finché non mi cacciano (35)

Siamo in uno dei momenti più difficili della storia del Paese, con una crisi economica che taglia le gambe a chiunque e impedisce all’italiano medio di cambiarsi lo yacht – almeno fino a settembre, poi ci sono ottimi sconti – e che ci fa retrocedere persino dietro chi è sempre stato peggio di noi.
[continuo su L’Unità, qui]

31 anni fa… quell’orologio…

Sono 31 anni che quell’orologio è fermo.

Fermo come allora.

L’uomo ha bisogno di simboli. Dalle caverne alla segnaletica stradale, dai monili a figure apotropaiche, dai tatuaggi ai brand.
Simboli anche cruenti, che sbattano in faccia la realtà: da 2000 anni si tiene al collo uno strumento di morte a forma di croce.

Quell’orologio per non dimenticare.

Come il Genbaku Dome, Il Memoriale per l’uccisione degli ebrei di Berlino, i Bambini di Lidice.

Simboli, molti più che segni.

Guardi quell’orologio, ora come allora, e non puoi che tornare a quel giorno di 31 anni fa.
Cosa stavi facendo in quel momento? Quanto era diversa la tua vita? Tanti neppure erano nati…
Io c’ero. Quell’orologio scandiva ogni giorno la mia giornata di bambino. Neppure capivo cosa fossero quei numeri. Ma mi affascinava.

Poi le cose cambiano, la vita ti porta lontano e quell’orologio scompare dal tuo quotidiano.
Ma sai che è lì. E lì resterà a futura memoria. Nessuno oserebbe toccarlo. Il bello dei simboli è questo.
E oggi, finalmente, trovarmi di nuovo faccia a faccia con lui. “Per vedere l’effetto che fa”, diceva qualcuno.
E lo fa, Cristo. Stringe il cuore.

Quel cazzo di orologio è ancora capace di lacerarmi l’anima.

Dopo 31 anni.