Critica e autocritica di un fallimento: la satira politica è morta

brunetta
Se vi fa ridere lasciate immediatamente questa pagina

 

Dopo anni passati in “consessi satirici” più o meno noti, insieme a persone più o meno capaci di tirar fuori battute più o meno valide, a tratti condividendo vis-a-vis momenti sublimi con talenti purissimi (ma recitare allo specchio mie cose lo trovavo un tantino presupponente, benché gradevole), sono giunto ad una conclusione circa la funzione della satira politica oggi, della sua efficacia nel trasmettere qualcosa e sensibilizzare le coscienze.

Zero. Non c’è. Fine.

Che poi è esattamente il contrario di quel che sono sempre andato in giro a predicare, ma è virtù dei grandi rivedere il proprio pensiero. E adoro scimmiottare i grandi.
Preciso che mi riferisco in particolare alla satira politica: per quella sociale vedo ancora margini di utilità. Ma credo finirà presto e anche questa sarà spazzata via (mi vengono a consegnare il divano alle 17 e per quell’ora deve essere tutto sgombro).

Ammetto – mea culpa – di essere stato uno dei portabandiera dell’idea che una denuncia potesse essere veicolata al meglio tramite la satira, con quel cazzotto allo stomaco che solo una roba tagliente è in grado di provocare.
Ma per me oggi la satira è morta.

Una prima mazzata l’ho avvertita quando qualcuno ha tentato di definirla e ingabbiarla in costrittive gabbie istituzionali:

“Satira è quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene” (Corte di Cassazione).

Già contenere un fiume in piena – come dovrebbe essere la satira – in un alveo ristretto e artificiale, delineato da chi si dovrebbe occupare di amministrazione della giustizia, mi crea un brivido. Ma anche ad ammettere quella definizione mi vien da dire: è una balla. O meglio: non funziona. La correzione verso il bene non c’è, almeno qua da noi. Lo abbiamo sperimentato. Sono costretto a ricredermi. E questo alla luce di una lunga analisi delle reazioni che nel nostro Paese stiamo avendo da anni, a migliaia di battute satiriche.

La cartina tornasole è – manco a dirlo – la vicenda Berlusconi. Scusate! SCUSATE! Lo so! Ma seguitemi.

Dal 1994 stiamo massacrando quest’uomo in ogni modo: statura fisica e politica, igieniste dentali improbabili, intrallazzi e magheggi, connivenze, puttane, gaffes internazionali, cadute di stile, promesse impossibili e cancri guariti entro tre anni (a partire da?), weekend in vacanza per i terremotati, altre puttane, stallieri eroi, falsi in bliancio, unti dal Signore, minorenni nipoti, minorati alleati, giudici e calzini, giuramenti sui figli, che oggi sono peggio degli ebrei, kapetti e kapò, ancora altre puttane, tantissime puttane, Dio quante.

E puttane (l’ho detto?).

Materiale per una produzione satirica impressionante, che ha foraggiato autori eccellenti (pochi) e dato spunti per una proliferazione di battutisti dietro ogni angolo (presenti compresi), con risultati che raramente si discostavano da uno sfottò banale e trito dopo pochi passaggi, grazie anche all’enorme risonanza sui social.

Ed è qui il punto dolente, il motivo che mi fa esprimere in modo tanto definitivo, circa l’inutilità della satira politica in Italia e la sua inefficacia nella correzione di alcunché: la ridondanza e la proliferazione sui social di una infinita serie di “versioni” della stessa battuta, dello stesso sottolineare la gaffe o il colpo di duomo sui denti, di meme parodistici, spesso di scarsissima qualità quanto a originalità e realizzazione.

Tempo poche ore, e la stronzata di Silvio veniva analizzata, vivisezionata, paraculata in ogni modo, creando appunto meme, sollazzi e tormentoni, spesso di una pochezza ancor più imbarazzante dell’originale.
Battute, vignette, scenette, macchiette, grandi tette, rappresentazioni, Vauro, Crozza, Guzzanti (quello bravo), Guzzanti (la sorella di quello bravo), ombrelli nel culo, siti in crowdsourcing e battute in ciclostile raccolte in libri comprati da chi li scrive, Giannelli sul Corriere (Dio mio!), quotidiani di regime pronti a sbeffeggiare il Nostro in ogni modo.

E puttane.

A cosa è servito? No, davvero. Tutta questa produzione, questo mostrare al mondo l’oggettiva pochezza di quest’uomo, la sua evidentissima presenza sullo scenario politico per motivi personalissimi, a cosa è servita se non ad alleggerire quelli che in molti casi erano veri e proprio reati (accertati), a sdoganarli attraverso gag, a edulcorare, a furia di sfottò, la vera indignazione?

A fare il suo gioco, in sintesi. Trasformare tutto in goliardica partecipazione collettiva a un coretto da stadio contro “il nano, ahahahah!”, lasciando che il nostro modo di vedere la realtà, lentamente, cambiasse, accettasse che “in fondo le cose vanno così: ridiamoci almeno su”.

Ridiamoci su un cazzo.

Non era quella, la funzione della satira. Non era quello lo scopo del “castigare ridendo mores”. Non era sdoganare la merda, come invece è stato.
Quella risata su Berlusconi, sui Berlusconi vari intesi come potentati di turno, noi italiani la facciamo piena, grassa. Ed è profondamente sbagliato, perché vuol dire che la satira è morta. Ci fa ridere proprio, Brunetta alto 1.43, che si permette di insultarci dal suo basso (ecco!); ci fa ridere proprio, la sfacciataggine di Silvio che si inventa la storia della nipote di Mubarak; ci fa ridere proprio – e non è una risata amara come dovrebbe – Razzi che, al giornalista, candidamente confessa che quel magna magna in Parlamento c’è e c’è sempre stato e che lui stava là solo per la pensione.

E il giorno dopo? Le iene ci fanno il servizio (quello con i pernacchi e le scoregge), Spinoza ci scrive il post col giochino di parole (“Razzi amari” andrà benissimo), Crozza si mette la parrucca e fa un monologo di cinquanta minuti, sempre più zeppo di autorisatine e di politici imbarazzati. Per lui.

Com’è che da noi non abbiamo mai avuto un Gavrilo Princip, un Lee Harvey Oswald ma al massimo un Massimo Tartaglia armato di piccolo Duomo?
Perché pure negli attentati siamo Ezio Greggio e non Bill Hicks.
Ci piace la comica con la torta in faccia, non la satira sporca di merda.

Diceva Luttazzi (ve lo ricordate Luttazzi? Era quello che dava la voce ai comici americani defunti): “Ha paura della satira chi ha qualcosa da nascondere”.
Era verissimo. Ma un tempo, prima di questa esplosione di condivisione e medialità spinta, che tutto devitalizza e tutto pesta nello stesso mortaio, nel quale trovo Parlamentao Meravigliao, Crozza e Charlie Brooker a distanza di un “mi piace”.

Chiariamo: Brooker è l’unico ad avere ancora tutte le ragioni per fare un pezzo del genere, perché si sta rivolgendo a una platea che non ha a che fare con battute sul Bunga Bunga da anni. Dunque immaginate che carica dirompente ci sia in un intervento del genere e che impatto presso un pubblico abituato a chiedere le dimissioni di ministri per fatture di ottanta euro imputate a spese personali.

Ma a parte questo, una battuta come “Berlusconi e una diciassettenne? È come se un fantasma si scopasse un embrione” io da Crozza non l’ho mai sentita. Da lui sento le vocine, vedo le faccette e mi sorbisco robe come “Sei un grandissimo Orione”.

Satira politica italiana. E questa è la migliore.

Quale politico o personaggio di potere oggi ha paura della satira? Fanno la gara per essere imitati, citati, parodiati.
Se Crozza non ti ha rifatto non sei nessuno. O sei Crozza.

La satira politica è morta. Quantomeno ha cambiato funzione. Da denuncia è diventata dileggio fine a se stesso. Non mette alla berlina il potente: ci gioca insieme.
Non è più Fiorello che fa La Russa: è la Russa che imita se stesso fingendo lo faccia Fiorello.

La satira politica oggi è connivente col regime perché fatta così, con un livello così basso e con tale mancanza di coraggio (e con l’aggravante dell’immensa diffusione facebookiana e twitteristica) che ciò che ne resta è un crash dummy rintronato, una sagoma svuotata, un cartoccio avviluppato su se stesso, senza alcun messaggio sottostante, perché triturato, sminuzzato, digerito e ricacato. E ciò che ci rimane è uno stronzetto satirico. Pronto a essere ributtato giù, non prima di abbondante ricondivisione con faccine sghignazzanti.

Una desensibilizzazione totale. Che fa il gioco del potere stesso.

Giannelli-11.11.2011
Si noti che Berlusconi è più basso degli altri: coincidenze?

Maroni che ride alle battute di Crozza sui leghisti. Invece di querelarlo. Invece di insultarlo. Invece di picchiarlo.

Tutte le vignette che hanno messo in ridicolo la statura di Berlusconi, le sue orecchie, le sue rughe di cuoio, il suo trapianto, il suo cazzo affamato, hanno completamente svuotato di significato quel che è il concetto di “rabbia politica”, di “fame di correttezza”, di naturale bisogno che a governare ci sia una persona capace. È tutto diventato un: “Ahahahah! Ha dato alla Minetti un incarico istituzionale, che porcheria… adesso una bella photoshoppata di Silvio in mezzo alle tette della Minetti, sul crocifisso… ahahah!”.

Intanto la Minetti là sta, con o senza crocifisso. Intanto ciò che passa è la solita, antichissima e mai messa in discussione, idea che si faccia carriera solo con raccomandazioni e pompini. Che l’Italia vada così ed è inutile farsi il sangue amaro: divertiamoci almeno a prendere per il culo chi di dovere. Ma senza esagerare. Giannelli andrà benissimo.

Mi fa gran specie parlare di queste cose populiste e terra terra, che dovrebbero essere parte del corredo genetico di una società, ma tutto questo teatrino – ribadisco – ha trasformato ciò che era nella natura del meccanismo sociale in qualcosa ormai di perso, di dato per irraggiungibile: parlo della trasparenza, della politica al servizio, del fatto che chi siede in Parlamento indossi una cravatta e non una canottiera unta e che non parli come parlerei io dopo tre Peroni familiari.

O tre puttane.

Ecco: è evidente che la satira politica, almeno in Italia, abbia totalmente perso forza, se non addirittura funzione.

La Santanché urla e offende un’operaia, e invece di massacrarla politicamente, fare in modo che questa gente sia esiliata altrove, magari in Barbagia (cit.), che si fa? Subito migliaia di photoshoppari dell’ultima ora a metterle in bocca di tutto. Principalmente una roba, ma qua si parla di creatività e fantasia e anche una melanzana richiede uno sforzo mentale.

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Concedetemi lo sforzo di originalità. Parlo della scritta Rai2.

In questo momento mi sento Gramellini sdraiato sull’Amaca di Serra spinta da Forattini e so che rischio di passare per demagogo-qualunquista e che se scrivessi queste cose in maiuscolo non sarei lontano da quelle che sono le legittime rivendicazioni del popolo grillino (certo, io ho scritto in italiano corretto, moderando la punteggiatura e ben inquadrando le istituzioni sin qui elencate, il che mi fornisce un certo vantaggio. Aggiungo che non credo negli ufo e nei rettiliani e conosco perfettamente la differenza tra Senato e una caldaia).

La satira italiana, come è fatta, come è condivisa, come è ormai incatramata sugli stessi sfottò, non è più utile, oggi. Anzi: è deleteria. Spinge ad accettare il male nelle istituzioni, a conviverci, a renderlo parte della nostra quotidianità a furia di battute. Permette certo di rendere tutto più digeribile, ma ci svuota della “collera civica” che dovrebbe essere sempre là ad impedirti che un Razzi venga eletto. La satira invece che fa? Lo prende in giro per la sua pochezza culturale, i suoi strafalcioni linguistici.

Razzi sempre là sta. E viene invitato nelle trasmissioni. E Crozza si mette la parrucca e lo imita.

Ridete pure, di gusto. Il balletto abruzzese era comicissimo. Quasi come il pavimento.

O forse ha semplicemente ragione Michael Moore: “La satira presume che il pubblico abbia un cervello”.
Il che ci riporta alla vera ratio di questo mio sfogo contro tutto ciò in cui ho creduto, cioè l’utilità della satira, che in queste quattro righe ho cercato di demolire.
Per scoramento, presa di coscienza che tanto, per quanto ci si affanni a denunciare e deridere, non cambierà mai un cazzo.
Perché il punto è quello di Moore: il grosso del pubblico, che poi è il destinatario dei messaggi satirici, guarda, ride, e passa avanti.

Sono fondamentalmente deluso.

E disilluso.

E puttane.

È una priorità questa o è puzza di cane bagnato?

6cca12

 

 

Ho letto fiumi (sic!) di banalità circa l’ostinazione e la caparbietà del popolo sardo e la sua certa capacità di uscire da questa tragedia. Né più né meno di quanto si scrisse qualche tempo fa degli abruzzesi e del terremoto. O di Longarone e del Vajont. O di qualsiasi popolazione e di qualsiasi tragedia. E le solite cazzate indignate sul “Perché non si ripetano più certe tragedie occorre fare in modo che…“. E le solite contro-indignazioni, su chi poi cinicamente osserva che alla fine non si farà nulla.
In mezzo, chi cerca di alleggerire con battute che tirano dentro le veline sarde, chi cerca di mantenere distacco, chi ostenta solidarietà e impegno fattivo senza se e senza ma, pure se stasera c’ha calcetto.

Priorità.

Ma peggio ancora è chi propone fiaccolate, sospensioni di eventi, preghiere collettive, attimi di raccoglimento. Una ipocritissima pulizia di coscienza prêt-à-porter, tanto più inutile quanto più intramuscolare: il minuto di silenzio è l’apoteosi del nulla, lo sciacquafaccia a effetto rapido, la Coloreria per dare un tono nuovo a capi scoloriti e dismessi.

Fate una prova: cronometrate il minuto di silenzio, meglio se allo stadio. Se dura venti secondi è anche troppo. Perché la gente si rompe il cazzo, perché l’Atalanta deve fare il culo al Cagliari, e chi se ne fotte dell’alluvione. Anzi, magari hanno la testa altrove: meglio.

Priorità.

La gente muore, è sempre morta e sempre morirà. Di vecchiaia, di malattia, di catastrofi, naturali o procurate.
La gente muore, e ci frega davvero di questa gente solo se è vicina a noi. E se proviamo umana empatia per morti lontani è solo per proiezione, per un naturalissimo trasportarci con la mente a quelle condizioni, un pensare cosa proveremmo se fossimo noi al posto di chi ha perso tutto, che è annegato sotto un cavalcavia, che ha visto il figlio trascinato via da un torrente.
La gente muore, e inscenare rappresentazioni cariche di misericordia e partecipazione emotiva a lutti altrui non serve ai morti, non serve a chi ha perso i propri cari, ma serve – egoisticamente – a noi attori di queste pièce teatrali barocche e appiccicose, noi portatori un sentimento che – intimamente – viviamo anche come vero e tutt’affatto ipocrita, ma che non riusciamo a inquadrare per quel che è: proiezione.

Ce lo insegnava Aristotele: la catarsi, la purificazione avvengono nel momento in cui nasce il timore che le stesse disgrazie si verifichino anche su di noi. E questo, insieme alla compassione nella tragedia, porta innalzamento, liberazione. Ma ciò avviene attraverso proprio il timore, la consapevolezza che potrebbe toccare a noi la prossima volta.
Gli dei dell’Olimpo erano distaccati e raramente interferivano con le disgrazie umane (e quando lo facevano c’erano motivi – amore, vendetta. E conseguenze). Perché non provavano timore che quelle accadessero anche a loro.

La molla della compassione è la proiezione. Mettersi al posto di quello là – Dio non voglia!

La sofferenza altrui è un’ombra, che si proietta tanto più potente quanto più vicina è a noi l’anima colpita.

Per questo un lutto immane come quello delle Filippine ha lasciato negli italiani una traccia, certo, che però si è affievolita istantaneamente quando è accaduto quel che è accaduto in terra sarda.
Ed è per questo che quando c’è una disgrazia da qualche parte, la prima cosa che facciamo è contattare chi conosciamo in quei luoghi.
È normale che sia così? Certo, lo è. Perché tanto più vicina è la persona colpita dal male, tanto più forte è la nostra proiezione, identificazione. Fino al male sommo, che si ha quando quella persona è realmente parte di noi, della nostra famiglia. Là la proiezione si incarna: diventa apparizione di Seth, dell’Uomo Nero che esce dall’armadio, della macchia sulla radiografia.

Il Male bussa, si presenta. Chiede di te.

Ed è qui l’esercizio che vi invito a compiere, se avete voglia di guardarvi dentro: ciascuno di noi dimenticherebbe all’istante le decine di vittime sarde se avesse un figlio colpito oggi da una leucemia. E non esiterebbe a scambiare la sua guarigione con qualsiasi altro male al mondo, ivi compresi terremoti devastanti, genocidi, uragani che annientano intere città. Meglio se lontane, certo.

Se aveste la possibilità di evitare un male tra due, uno solo, uno, tra certezza di un terrificante terremoto in Zambia con migliaia di vittime, no: decine di migliaia, e una leucemia a vostro figlio, voi, cosa scegliereste?
Si tratta di un rapporto di 1 a 10.000. O 50.000. Assolutamente perdente da un punto di vista eminentemente utilitaristico.
Eppure.

Priorità.

E cosa sceglierebbe una madre di Kaoma, Zambia, di fronte a questa opzione? Mi pare scontato, potete salutare il vostro bambino.
Andiamo oltre? Neghereste che voi odiereste a morte quella donna, che ha scelto la propria terra, i propri affetti, condannando chi per lei è solo uno sconosciuto lontano?

Ha tutto senso, certo.

Ma se lo ha, perché ancora partecipate a questi riti collettivi tribali e privi di reale valore, privi di vero, intimo afflato? Una partecipazione che trovo invece superficiale e distratta. Scarica.

Il minuto di silenzio? Interrompere un concerto “in segno di rispetto per le vittime?”. Ma che cazzate sono?
La gente muore. Smettiamo di far qualunque cosa allora, teniamo le saracinesche perennemente abbassate, indossiamo una fascia al braccio.
Piangiamo. Ogni istante. Se vogliamo davvero essere coerenti.

No, non dovete più pensare di avere questi alibi facili, questi “Smacchiatutto” per le vostre piccole coscienze.
E no, col cazzo che i due euro via sms “sono comunque qualcosa”. I Telethon hanno prosciugato le risorse mentali di noi tutti. Mentali, sì: non economiche. Stare a bussare a quattrini, col testimonial di prestigio (se Alessia Marcuzzi o Flavia Vento possono essere considerate di prestigio) che ti chiede soldi ogni tre per due, perché lui comunque ha bisogno di scaricare quelle donazioni e comunque fa immagine, ha realmente rotto il cazzo. Perché un Telethon nato per un’emergenza una tantum può anche avere senso. Quando diventa istituzionalizzato e suppletivo rispetto ad una Protezione Civile o ad una Ricerca che dovrebbe trovare finanziamenti dallo Stato per sua stessa funzione e utilità, beh: significa che hai svuotato una liberalità e creato un’accisa.

Come suggerisce una cara amica, volete fare qualcosa per il popolo sardo? Andate in vacanza là, comprate prodotti loro.
E pensate sempre che comunque si muore. Date meno valore alla vita: vi hanno preso per il culo da piccoli, con questa sopravvalutazione di questi 70-80 anni a pascolare qua sopra.
Vi hanno insegnato ad iper-impegnarvi, anche al di sopra delle vostre capacità. Che già sono quelle che sono. Ad affannarvi. Rilassatevi, magari c’è un cavalcavia gonfio di melma che vi aspetta.

La nostra solidarietà è fatta di strati. È una cipolla fetente, è spesso opportunismo, calcolo. Smettetela di condannarvi se proprio non ce la fate a provare reale e sentito dispiacere per dei morti in Nigeria. Siamo programmati così, per andare avanti. Non per ostentare bontà, dolore, partecipazione.

Siete esseri umani. Siate esseri umani.

Priorità.

Orgogliosi di latitudine e longitudine

The_Patriot

 

Qualche tempo fa scrissi una cosa sul campanilismo, su quanto sia umanamente naturalissimo ma comunque del tutto ridicolo, sentirsi orgogliosi d’essere nati in questo o quel luogo e su quanto dannose (dannose) siano le tradizioni che inorgogliscono borghi e quartieri italici. Dannose (l’ho detto?).

Estendo il ragionamento al concetto di “Patria”, e non perché consideri l’Italia inferiore ad altri Paesi. O superiore. Semplicemente perché è per me sempre stato fonte di curiosità e sarcasmo il concetto di orgoglio per quella che è solo una convenzione sociale atta a mantenere distanze tra le persone: la nazione.

Quando qualcuno afferma di essere “orgoglioso di essere italiano” mi viene sempre da tirar su il sopracciglio alla Ancelotti. Perché davvero l’orgoglio di appartenere ad una nazione piuttosto che a un’altra lo trovo buffo, ancor più che essere orgogliosi di avere i capelli castani o preferire il mare alla montagna.

Non solo non c’è “merito” ad essere nati in un luogo: non c’è proprio valore.

Pensateci: essere orgogliosi di essere italiani, perché? Per la storia che “questo grande Paese” si porta dietro? E cosa significa? Che tu, studente fuori corso a Roma Tre, usciere del Ministero delle Finanze, disoccupato al tavolino del caffè al Pigneto, ti senti antico romano a tua volta e dunque un tempo tu, personalmente o per interposta persona, dominavi il mondo?
Tu sai bene che quelli non sei tu. Non porti nulla dentro di te di quella gente. Il sangue? Sai quanti accoppiamenti, rimescolamenti (magari anche con gente di Roccaraso o Isernia) ci sono di mezzo tra te e un antico romano? Molti più di quanti tu ne abbia visti su Youjizz. Per darti parametri che conosci. Numeri impressionanti, eh?

Ma anche se, per qualche motivo statisticamente inesistente, tu fossi discendente diretto di un Giulio Cesare, cosa avresti tu di Giulio Cesare? Tracce di DNA? Cioè, mi stai dicendo che filamenti, infinitamente ricombinati, di adenina, guanina, citosina e timina, ti rendono orgoglioso? Credi di possedere le sue ville? Le sue truppe? Le sue corone d’alloro? E solo perché passeggi al Pincio al sabato?
Non ti pare realmente buffo?

Sto semplificando troppo? Ma perché, essere fieri di essere nati in un luogo ti pare un qualcosa da analizzare con strumenti diversi da questi, tagliati con l’accetta?

Tu non sei quello che si vanta di non avere nulla dei suoi genitori – “mio padre è un fallito e io non sarò mai come lui” – e ora mi rivendichi appartenenza con gente passata a miglior vita 2000 anni fa? E nello stadio mi esponi lo striscione “S.P.Q.R.”, come a dire: “Guarda quanto siamo fighi noi, che un tempo dominavamo il mondo! Mo’ faccio l’autoscatto e lo pubblico su Facebook insieme al primo piano di me che piscio nella familiare Dreher”.

Gli antichi romani, quelli che conquistarono il mondo conosciuto tranne il villaggio di Asterix, sono tutti morti. Mentre tu sei vivo, forse anche cerebralmente. E pure gli etruschi. Mortissimi. E quelli del Rinascimento. Stramortacci loro.
E tu non hai dipinto un solo pezzo del Giudizio Universale. Né aiutato Canova a scolpire alcunché. Tu non c’eri allora. Come puoi essere orgoglioso di qualcosa alla quale tu non hai contribuito in alcun modo?

Ma anche a vedere tempi più vicini: Seconda Guerra Mondiale. Magari hai un bisnonno che ha fatto la guerra. E sei orgoglioso di…? Di cosa? Hai combattuto? Sei il tuo bisnonno? Qual è l’aggancio? Il cognome? Cioè mi stai dicendo di essere orgoglioso di una convenzione sociale come un cognome? No: neppure. Mi stai dicendo che sei orgoglioso di una convenzione sociale come un territorio. Tu sei orgoglioso di essere italiano perché persone morte, che hanno fatto qualcosa in passato, una volta vivevano sullo stesso lembo di terreno sul quale oggi tu trascini le tue giornate, tra un aperitivo cenato a 25 euro con le patatine molli e un giro al centro commerciale ad accompagnare quell’orribile ciancicatrice di gomme che ti ostini a presentare come tua ragazza, mentre sbirci il culo delle commesse di Yamamay.

Lo trovo buffo. Molto buffo.

Fermati a rifletterci, te la metto facile facile: tu sei orgoglioso di condividere, con persone che non esistono più da anni, decenni, secoli, millenni, l’essere locato per latitudine e longitudine in luoghi abbastanza coincidenti.

Ancora più facile? Tu sei orgoglioso della tua latitudine e longitudine.

E allora, quando parli con qualcuno del tuo essere italiano (o francese, tedesco, americano) digli: “Io sono orgoglioso della mia latitudine e longitudine”. Lui ti dirà: “Perché?”. E tu risponderai, sicuro: “Me l’ha detto UMC”.

Farai una figura bellissima.

Da patriota.

L’insostenibile leggerezza del non essere

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Le persone si dividono in due grandi categorie.

So che le categorie in realtà sarebbero centinaia, per tante le volte che avete sentito dire questa cazzata, ma io qua ora vi parlo di due categorie specifiche, che sono certo riconoscerete: quelli che vivono in rilassatezza e quelli che vivono spaventati.

In verità le categorie sarebbero tre: ci metto in mezzo chi a volte vede le cose in modo positivo, altre volte si fa prendere dallo sconforto. E sono la maggior parte delle persone, quelle “normali”, diciamo. Ma a me oggi interessano gli estremi: quelli che vedono tutto rosa e quelli che “Cristo, non ho chiuso il finestrino della macchina dunque è certo che pioverà/ci sputeranno/la ruberanno/entreranno demoni infernali/a rubarla/e sputarci/catarro in particolare”.

La vita è una zoccola, si sa, e chiunque viva sempre vedendo solo il lato bello delle cose o è un coglione o è Paolo Brosio*.
*Nessuna battuta scontata.
Ma ci sono persone positive (Aldo Rock, Robin Williams, Alex Zanardi, Fiorello, Papa Francesco, Fiorello che fa Papa Francesco) che almeno così sembrano esternamente: magari Zanardi manda cristi dappertutto quando non trova le pantofole la mattina, non so.

Ecco, questi sono i personaggi che ti danno l’idea di gente che vive in pace con la vita, che prende le cose con un sorriso, ci trova il buono a prescindere e che se ha problemi li affronta in modo sano.

Poi ci sono gli altri, quelli che vivono nell’ansia quotidiana. Quelli compulsivi, che “Ho spento il gas?“, “Ho chiuso la macchina?” e via dicendo fino ai casi limite di chi ha la macchina a gas e là sono cazzi seri per numero di controlli.

Conosco persone che girano attorno all’auto per alcuni minuti, accertandosi che questa sia ermeticamente inaccessibile (ché non si fidano della chiusura centralizzata: diavolerie moderne), che gli specchietti siano chiusi, antenna abbassata, zeppa sotto le gomme, Arbre Magique rimesso nella confezione, foderine rimontate sui sedili. Iperattenti, ipervigili, ipertesi. Poi magari si fanno togliere duemila euro da Wanna Marchi (erano distratti dall’auto).

Sono i terrorizzati dalla vita, che come motto hanno “Teniamoci ‘sti pochi guai“, che darebbero un braccio pur di vivere il giorno successivo esattamente come il precedente. Esseri spaventati e spaventosi, che vanno in vacanza sempre negli stessi posti, desiderando per tutto il tempo di tornare a casa. Che soffrono quando c’è la gita fuori porta perché c’è da andare fuori porta, con tutto ciò che questo comporta (andare fuori porta); che durante le feste comandate ripetono i soliti giri, con le solite persone, in modo da vivere la stessa giornata dell’anno precedente; che a sentirli pare che chissà quanta saggezza nascondano col loro fare pacato, moderato e mai da colpo di testa, ma che in realtà puzzano di morto.
Ripeto? Puzzano di morto. Sono persone già trapassate, che si fanno i loro conticini sulla pensione dall’età di sette anni, che come ideale hanno una quotidianità fatta di odori sempre uguali, sapori sempre uguali, facce sempre uguali, luoghi sempre uguali, uguali sempre uguali. E quale luogo rappresenta al meglio tutto questo? Già: una bara in mogano. O noce, certamente. Sarà il momento del loro trapasso a sancire il loro personalissimo punto di arrivo, il raggiungimento dei loro desiderata, il Walhalla del nulla e delle assonanze ardite, l’apoteosi del non-essere che hanno coltivato in una vita intera.

Volete un aneddoto? Dai che lo volete. Con un amico sono andato in uno di quei campi volo nei quali sali su un Savoia Marchetti del ’34, arrivi a 4500 metri e ti butti giù sperando di non essere ricordato come la copia di Taricone non iscritta a Casa Pound. Io sono atterrato come si deve, nel modo ideale (oddio: per atterraggio ideale intendo quello fatto su una svedese ventenne nuda, ma io sono un perfezionista), il mio amico si è rotto una caviglia. Cose che succedono, certo. Che se non ti butti col paracadute non succedono, certo (a parte la figata di poter rispondere, a chi ti dice: “Infortunio di calcetto?”, “Paracadute”). Infortuni evitabili se resti sul divano a vedere la partita. Ma è questo il punto: vale la pena? La partita, dico. Cioè: è vita quella? Avere le caviglie sane ma essere morti dentro? Avere come ricordi del weekend l’inquadratura di Chiellini che entra duro su un avversario? Dov’è il senso della vita? Perché non ci si rende conto che, tempo poche decine d’anni (se va bene), e quella vita che oggi stai riproducendo la vivrai realmente e definitivamente sotto un cazzo di metro e mezzo di terra? Ma perché anticipare i tempi? Per abituarti?

Io mi rendo conto benissimo che non è “sano” neppure ricercare sempre l’eccesso, che la vita la si gode anche nelle babbucce a casa e che spingi spingi, alla fine si torna sempre là: la svedese ventenne nuda il mogano. Però, ma Cristo: riesci ad avere presente come funzionino le cose qua? Inizi a morire dal giorno in cui vieni al mondo. Sei destinato a tornare humus e composito. In mezzo ci sono X anni di qualcosa di tuo. Non sai neppure quanti: è una variabile impazzita, come quelle cellule di Zuzzurro. Mi spieghi cosa ti spinge a trascorrere parte di quegli anni a ruotare attorno ad una macchina, percorrere sempre gli stessi metri, incontrando sempre la stessa gente, parlare sempre delle stesse cose e ritenere le persone “vive” come qualcosa di tutto sommato fastidioso? Perché è questo che noti, in questa gente: criticano sempre chi la vita la vive davvero.

Perché?

Ti prego, spiegami, Esopo.

L’intelligenza dei delfini è decisamente sopravvalutata


 

Canada, avvistato il più grande branco di delfini di sempre. Riusciremo a soffocarli con la più grande serie di buste di plastica di sempre?
I delfini, si sa, sono animali intelligentissimi. Molti, per esempio, sanno distinguere una busta di plastica da una boa. Poi però si rincoglioniscono e confondono una busta di plastica e una medusa. Diciamo che l’intelligenza dei delfini è decisamente sopravvalutata.
A tal proposito, se avete intenzione di fare un giro in mare e, mentre sorseggiate un Mojito, vi viene quel desiderio – naturalissimo – di vedere come agonizza un delfino, io consiglio sempre le buste Coop: sono trasparenti, sottilissime, si rompono già mentre imbusti le cose alla cassa: capisci che sono state progettate per altro che metterci roba dentro e io ho scoperto per cosa. Fidatevi: non userete mai più altro per soffocare queste meravigliose creature, anche se molti preferiscono le buste Lidl, ma io le trovo meno gradevoli al tatto.
Alcuni delfini, prima di mangiare le buste, emettono dei suoni a km di distanza, per richiamare altri simili sull’abbondanza di cibo. Diciamo che l’intelligenza dei delfini è decisamente sopravvalutata.
Avete mai sentito i richiami che emettono? Ci sono scienziati che hanno dedicato tutta la loro vita a cercare di decifrare il significato di questi suoni e alla fine hanno capito che non significano un cazzo, ma non ce lo dicono perché sono laureati in oceanologia: o quello o i call center.
Quando saltano fuori dall’acqua, spruzzando tutt’attorno, sembrano davvero voler dire: “Allora, in orizzontale quanto mi pare, in verticale finisce qua. Me lo devo ricordare”.
Poi però non se lo ricordano. Diciamo che l’intelligenza dei delfini è decisamente sopravvalutata.
Da piccolo ricordo volevo nuotare insieme ai delfini: era il mio sogno.
Poi ho scoperto la fregna.