Breve prontuario contro gli obblighi parentali

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Una famiglia-tipo riunita. A capo tavola il nonno racconta aneddoti infarciti di robe sporche (si notino le banane a portata di mano per la solita gag finale)

“Il nuoto è lo sport più completo”.

Fino a quanti anni è lecita una affermazione del genere? No, nel senso: se hai trent’anni, quante volte l’hai sentita, questa cosa? Se ne hai quaranta, non ne sei nauseato? A cinquanta non imbracci un fucile per sparare a chi ancora se ne esce con queste banalità, magari in una tavolata con altri quaranta-cinquantenni che invece di aggredire il luogocomunista annuiscono come se avessero sentito chissà quale grande, inedita verità?

Cena con parenti. Tutti riuniti, cellulare in mano, ad aspettare di fotografare piatti uguali a quelli della volta precedente.
– Scusa, ma quella foto del timballo, poi, la riguardi?
– Eh?
– È un Galaxy?
– Sì.
– Bello, bello, chiedo venia, continua pure.

Perché creare cortocircuiti è piacevole, ma non puoi farlo in modo troppo spudorato, palese. Hai da mantenere una diplomatica ipocrisia, che ti disegna sul viso i contorni del sorriso di Joker, per tutta la durata del conviviale raduno.
I muscoli facciali si irrigidiscono a tal punto che quando rientri nella tua macchina, nel rilassarli ti escono peti dovuti alla pelle che si riassesta in tutto il corpo (l’automobile è il luogo nel quale maggiore è la percentuale di peti rilasciati rispetto a qualunque altro posto).

– TANTI AUGURI A TEEEE
– E LA TORTA A MEEEE
– Ahahahah!
– Come?
– Cosa?
– La cosa della torta.
– Eh? No, gli auguri a te, e la torta a me! Ahahaah!
– Non ho capito: noi non la mangiamo?
– Ma no! È uno scherzo!
– Ah, non ci ero arrivato, circondato come sono da ultracinquantenni mi ero tarato anch’io su un’età adulta, chiedo venia, continua pure.

Che poi ti prendono per asociale, quando, semplicemente, come hai smesso di trovare credibili e divertenti i Flinstones a tredici anni, Tom e Jerry a dodici e Cristo a undici, hai pure visto i tuoi meccanismi di elaborazione dell’umorismo radicalmente rinnovarsi: se da preadolescente i tormentoni di Ezio Greggio li trovavi tutto sommato pedanti, a diciotto avresti volentieri ricreato l’ambiente di Saw per l’intero cast del Drive-in (tenendo sotto formalina le tette della Tinì Cansino).

Quel che mi chiedo è: perché vale solo per me? Su dieci persone, possibile che solo io trovi insopportabile tutta la manfrina fatta di:
– Ma quanto è cresciuto questo ragazzino! Sembra ieri che lo tenevo in braccio!
– Era ieri.
– Eh?
– Ieri lo tenevi in braccio. Mentre gli dicevi che quando era piccolo lo tenevi in braccio come in quel momento, e lui smessaggiava nella sua lingua cuneiforme coi suoi amici senza degnarti di attenzioni, come ora.
– Ma… Era per dire…
– Ah, allora vale tutto, pure dirgli “l’iguana è un animale molto particolare, specie mentre legge l’ultimo di Roth con gli occhiali per la presbiopia”; chiedo venia, continua pure.

Qua dobbiamo prendere atto che il cambiamento parte da noi, dalle piccole cose, dal rifiuto dei riti familiari pseudovolemosebene, stressanti per chiunque abbia a parteciparvi.

Se un cognato attacca con “Gli auguri sì, ma il regalo niente, ahahaah” interromperlo con un ceffone è doveroso.
Se un cugino se ne esce con “La Rubbentus, ahahaha”, colpirlo con un cavatappi sul bulbo oculare rappresenta un preciso obbligo sociale.
Se il bambino attacca con la poesia sul sole che splende robustoso e forte, ricordarsi che non è lui, il Male (comunque colpirlo alla carotide sulla prima sillaba, non è sbagliato), ma tutti quelli che lo stanno riprendendo col telefonino, di fatto ignorando quella tediosa nenia nel presente per renderla immortale fino alla prossima caduta di telefono (l’unica salvezza per la nostra epoca: gravità batte gorillaglass centazzero). Ecco, in quei casi colpire con un nodoso randello quei feticci sollevati a mo’ di accendino al concerto di Baglioni del ’76 si configura come azione che persino Gandy* tatuato Amnesty riterrebbe meritevole.

*il fratello hipster

Facciamo tanto per tenere sotto controllo il colesterolo, ci vacciniamo per le influenze, stiamo attenti a non finire schiacciati dagli autobus che pure fanno il loro onesto servizio pubblico, e poi permettiamo che queste persone stuprino la nostra intelligenza e approfittino del nostro stato di defaillance per essere entrati nostro malgrado in un vortice psichedelico fatto di centrini frattali sui tavoli, vapori di ragù che bolle dalle sei della mattina e tv sintonizzata sulla messa della domenica.
Ed è mercoledì.

La verità è che non sono io ad essere starato. Né mi manca senso dell’umorismo, mi azzardo a dire.

È che finché riterrete che le problematiche sulle mezze stagioni possano costituire valido argomento di discussione a tavola, statemi lontano.

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Il bucero dal lungo becco giallo è una bestia bellissima

Buceros-bicornis

A volte c’è tanta di quella bellezza nel mondo che il cuore pare dovermi scoppiare“.
Questa frase mi risuonava in testa, ossessivamente, e non ricordavo dove l’avessi sentita. Un film, una canzone, un’incisione rupestre, certo, ma quale? Dove?
Allora cercai su Google e trovai la risposta.
E niente, finisce qua. Non c’è molto altro da dire.
Davvero.
Fu solo allora che vidi qualcosa che mi sembrava familiare.
Era Jeremy Ratchford, ovviamente. Portava con sé del marzapane che attirava inevitabilmente e incessantemente bestie e avverbi ridondanti.
Un bucero dal lungo becco giallo mi guardava come solo i buceri dal lungo becco giallo possono.
Mi ero perso. Ma soprattutto ero in grado di riconoscere un bucero dal lungo becco giallo.
Pensai che fosse più sconcertante l’essermi perso, ma estremamente più curiosa la cosa del bucero dal lungo becco giallo.
Là per là tentennai un po’: preoccuparmi per l’essermi perso o stare ancora là a menarla con la storia del bucero dal lungo becco giallo?
Alla fine pensai che del bucero dal lungo becco giallo non mi interessava poi troppo: non era mica un upupa.
Mi ritrovai a contare le monete che avevo in tasca: otto. Questa attività mi portò via circa 4 secondi, ma non mi risolse il problema della mia posizione.
Mi rannicchiai a terra, in posizione fetale, come mi spiegarono durante il volo in aereo. Neppure quella cosa mi aiutò.
Accanto a me non c’era nulla che potesse aiutarmi a capire dove fossi, ma qualcosa dovevo pur fare. Così chiesi a un vigile*.
*Ricordarsi di utilizzare questa opzione solo come extrema ratio.
Avete presente quelle giornate nelle quali tutto attorno pare essere uscito dalla testa di David Linch? Nani, nani dappertutto.
Improvvisamente:
– Sono il miglior attore del mondo!
– Dimostracelo!
– Sono Jeremy Ratchford.
– Allora ok, scusaci.
Tenete presente che i canadesi sono fatti così, li devi prendere per quello che sono, non è che puoi farli sentire pure tu i cugini scemi degli americani.
– Io merito di più! – urlò Ratchford.
– Gluuu! Gluuu! – rispose il bucero dal lungo becco giallo.
Nessuno fiatò: era la prima volta che qualcuno:
a) Sentiva parlare di Jeremy Ratchford.
b) Ascoltava il verso del bucero dal lungo becco giallo.
c) Sapeva esattamente il numero di monete nelle mie tasche.
d) Varie ed eventuali.
– E sono anche un gran cantante! – aggiunse
– Facci sentire!
– Ma lascia stare, ma chi te lo fa fare…
– Sei intonato, ma lascia stare, appunto.
– Certo, certo.
I canadesi sanno anche farsi da parte, quando capiscono che non è aria e l’interlocutore esprime sottile umorismo.
– Vorrei fondare una scienza – infierì Ratchford.
– La parte sui tensori e gli spazi vettoriali la conosci?
– No.
– Dunque…
– Sì.
I canadesi a volte esagerano.
Una cadrigan affiori peer i signiore.
(Ho preferito mettere tutti i refusi in un’unica frase, per aiutare il correttore di bozze).
Per chi mi cercasse, passerò le vacanze a Sorlada, ascoltando e bevendo Bellini.