Siamo tutti fatti d’anima e carne

tolleranza (1)

Io credo che questa diffidenza debba essere sradicata dalla nostra cultura, sempre un po’ razzista e chiusa.
Capisco che il contatto (repentino peraltro: qualche anno fa erano pochi e comunque non erano così malvisti) con gente così diversa da noi, possa generare un po’ di ansia, e soprattutto capisco quelli più spaventati dalle enormi distanze culturali che ci separano da loro, ma basta riflettere un po’ e pensare che anche noi, se fossimo cresciuti in un ambiente culturalmente diverso, saremmo venuti su con convinzioni che oggi ci sembrano inaccettabili.

Voglio dire, se mio nonno mi avesse messo in testa che mangiare maiale è atto abominevole, se mio padre avesse poi continuato su quella falsariga, io sarei venuto su senza panini al prosciutto ma sarei comunque la persona che sono, e soffrirei se chi il maiale lo mangia mi vedesse diverso. Certo, starebbe anche a me non considerare persona indegna chi preferisce la porchetta al couscous.

Credo che si debba andare oltre anche l’odioso concetto di “tolleranza”: dà sempre l’idea di sopportazione, un pentolone che ribolle pronto a far saltare il coperchio in caso di minimo alzar di fuochi.
Ammetto che è anche colpa di molti di loro, dei loro eccessi, che sono a volte sfociati in atti di vero abominio, che si è innescata questa spirale di diffidenza che ha portato una contrapposizione culturale come mai s’era vista: a noi dà fastidio il loro volerci convertire, la loro presunta arroganza, il loro sacro fuoco della verità. Ma non facciamo lo stesso anche noi coi nostri simboli? Certo magari la nostra cultura ha affinato meccanismi diversi e sedato certi estremismi, ma non mancano neppure da noi esempi belligeranti e ciechi.
E ricordiamo che i fanatici non sono tanti, ma sono certamente più “rumorosi” e dunque li notiamo di più: sono loro a fare notizia.

Dunque, il mio desiderio è quello di riuscire, una volta per tutte, a trovare una strada di dialogo, tra noi e loro, nonostante le difficoltà, nonostante per noi siano incomprensibili certi usi, nonostante le enormi distanze culturali.

Perché siamo tutti abitanti della stessa terra, sotto lo stesso cielo, noi e i vegani.

Mi vado bene così. E quell’uva non è poi granché

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Una ragazza acqua e sapone che si accetta per quello che è

Tra una foto di un bambino affogato su una spiaggia e una pubblicità che mi invitava a prenotare subito le mie vacanze al mare (non scherzo: potere dell’impaginazione miope), leggevo l’ennesimo articolo sullo stress e sul sapersi accettare per quello che si è, con una filosofia – più generale – che alla fine si risolve in un chinare il capo al fato e se sei grassa accettati, se sei cesso canta “il bello di essere brutti“, se hai la gobba toccati e avrai fortuna (ma probabilmente avrai commesso peccato), e che insomma è tutto bello così. Il che – mi pare – strida fortemente con ben altra programmazione genetica, che ci spinge costantemente a progredire, ad andare avanti, porci degli obiettivi, sognare per realizzare qualcosa, migliorare noi stessi.

Insomma, il “Mi vado bene così” io l’ho sempre trovato fortemente ipocrita, già solo perché nessuno di noi si accetta così. Altrimenti andremmo in giro nudi, per esempio, ma per convenzione sociale, opportunità, temperatura, pudore, ci mettiamo due stracci addosso. Facciamo esempi più concreti e meno estremi? Il “Mi vado bene così” implicherebbe accettare i capelli bianchi senza ricorrere a tinte, e niente capsule, sbiancamenti o trattamenti estetici dentali; trucco manco a parlarne, e gli occhiali non scherziamo: se non ci vedi accettalo, è un difetto naturale, sei fatto così. Ah, il deodorante.
Invece l’uomo corregge le proprie imperfezioni, perché vuole vivere meglio, ma anche solo apparire migliore, più giovane, in salute.

Perché questo dovrebbe valere per ogni cosa tranne i kg di troppo? Che peraltro manco ti cadono giù dal cielo
ma li costruisci da solo, con anni di impegno, quei rotoli. Perché metti un abito elegante, fard e rimmel, borsetta alla moda e zircone ai denti, anelli e orecchini, usi il deodorante (su questo ci voglio tornare, il deodorante è una evidente dichiarazione di abdicazione all’accettarsi per quel che si è: è quello il tuo odore naturale, accettalo), ti muovi in auto e non usando le tue gambe, mangi con le posate invece delle mani, e l’ascensore, e gli utensili invece delle nude mani… insomma, cambi tutto il cambiabile, ma poi per la ciccia te ne esci con “Mi vado bene così”?
Probabilmente perché tutto quel che ti ho elencato non comporta alcun sacrificio, se non economico.
Perdere peso sì. Evitare gli eccessi della buona o cattiva tavola sì. Alzare il culo sì.

Sacrificio.

Vestire di nero non ti aiuterà, ma anche questo: perché lo fai? Il nero sfina? E cosa ti importa, se la filosofia è quella di accettarsi per quel che si è?

Il pericolo del “Mi vado bene così” è poi ulteriormente evidente quando si inizia a celebrare la cultura del lassismo, a vedere come filosofia positiva di vita il lasciarsi andare, a confondere una vita senza stress con il non porsi obiettivi positivi. Ed ecco l’esaltazione del curvy, solo ipocritamente contrapposta alla lotta all’anoressia, quando il modello preso a paragone è già evidentemente errato. Non è l’anoressia, l’antagonista della ciccia: è lo stile di vita sano, ma accettarlo pesa (sic!).

Ci sono poi quelli del “è il metabolismo”. Sono gli stessi che trovano pretesti, capri espiatori, scusanti, come se vivessero permanentemente in una corrente del PD. Perché sarà anche il metabolismo (in parte), ma allora a maggior ragione alza il culo, non dargli una mano con le patatine. Pensate davvero che l’obesità che vedete in giro e che pare assumere le forme di una vera e propria epidemia dipenda da fattori genetici? La genetica incide per una percentuale minima, rispetto ad abitudini scorrette.

Resto poi basito di fronte al vessillo innalzato dai sostenitori del “Mi vado bene così”, circa il non voler rinunciare ai piaceri della vita. Come se fare le scale in agilità non rientrasse tra questi. Come se vedersi i piedi quando si va a pisciare non lo fosse. Come se non avere le ginocchia e la schiena doloranti quando si fanno due passi (dopo anni di abusi alimentari e nessuna attività fisica degna di nota) non fossero piaceri della vita.
Cosa considerate “piacere dalla vita”, solo abboffarsi di lasagne? Entrare in quello stesso ristorante e avere gli occhi addosso delle persone, non carichi di pietà (o peggio scherno) ma di ammirazione, non è un piacere della vita? Ma davvero trovate superficiale la cura dell’aspetto fisico e non invece la svogliatezza, l’abulia, il non avere attenzione per la propria persona? Non è questo lassismo, davvero superficiale?

E davvero poi considerate tutto questo in contrapposizione con “la bellezza interiore”? Ma perché mai? Capisco che parlare con un medio frequentatore di palestra possa spesso confermare tutti i pregiudizi negativi che ci portiamo appresso, circa cultura, capacità comunicativa, interessi, igiene personale, ma non scegliete solo i fanatici dopati. C’è un mondo che va oltre steroidi e fissazioni, credetemi.

Il modello curvy è rassicurante, certo, ma non per chi si “accetta così”, ma per chi non ha la forza interiore di migliorarsi, per chi ha perso motivazione, per chi si è seduto e ha smesso di considerare la vita un porsi obiettivi.

Magari è anche questo, umano.

Ma a trent’anni?