Cuore-Amore tutu-tatata

 

– Ma che merda ascolti? Dai, Mengoni?

– Eh lo so, però c’è qualcosa che…

– … sa di merda? Certo! Ma tu sei impazzito. Fammi vedere la tua playlist…

– …no dai…

– Cristo! Shakira… E poi? Oddio: la Tatangelo?!

– …scusa…

– Un coglione, sei un coglione. LMFAO, Zero7, John Foxx and the maths, Tenhi, Kraftwerk. Questi devi ascoltare!

– E’ che non mi piacc… – Cosa?

– Niente.

 

Anche tramite la musica si cerca di valorizzare se stessi. E questo vale per qualunque forma artistica.

Se vai al MOMA e ti trovi a dire “questa roba è una porcata” passi per ignorante. Così come se ascolti Mengoni ti prendono per il culo.

La scema e sgrammaticata adolescente ascolta Mengoni, tu ascolti Mengoni, tu sei scemo e sgrammaticato come lei e ora sai anche costruire dei sillogismi. Quando per la musica, come per l’arte in genere, quel che conta è ciò che ti arriva. Ma so costruire anche altre banalità.

E non importa come ti arrivi e perché. Qui si parla di evocazione, di base emotiva, non di cultura. E le due cose non vanno confuse.

Un suono, un odore, un accordo, possono richiamare un ricordo o una emozione e trasportarti altrove.

Il fatto è che questo “trascinamento” avviene tramite una costruzione artistica. Ma si tratta di un “plus”.

Vi capita mai di entrare in una casa e sentire un odore che vi sbatte violentemente altrove? Magari ad un momento dell’infanzia, non so. Ecco: quella è evocazione, ma svincolata da un contesto artistico o culturale. E nessuno ha da ridire se il puzzo del dado Knorr vi mette un brividino. Mentre cacano il cazzo se questo avviene tramite un gruppo sfigato.

Insomma: Mengoni o Springsteen, Zero Assoluto o un gruppo vero, importa ciò che scatta a livello sensoriale.

Dunque, quella parte evocativa, tutta soggettiva, viene confusa con lo spessore artistico perché è immersa proprio in questo contesto, più ampio e con risvolti sociali e culturali. C’è rappresentazione di qualcosa di esterno ed ulteriore e questo porta identificazione e giudizio sociale.

L’errore è allora il voler sussumere parte evocativa e quadro culturale in un unicum.

Questo accade ancor più con le canzoni che con altre forme espressive, perché la musica è linguaggio che non ha bisogno di decodifica quanto la pittura o la poesia, perché cominciamo a viverla fin da piccoli senza mediazione esterna, perché ci accompagna nelle stagioni della vita.

Cristo che frase del cazzo: “le stagioni della vita”. Pare una canzone della Mannoia. O forse lo è.

Io posso validamente comprendere che quello è un motivetto, che manca una strutturazione di suoni e strumentale, che il tutto è decisamente carente. Ma mi arriva qualcosa. Non sono ignorante: sono semplicemente stato tirato dentro emotivamente, mio malgrado, non so.

Dunque potete piantarla di menarvela con questi gruppi sconosciuti: me ne fotto di voi e di loro. Qualunque cantante può finire nel mio Ipod, qualunque canzone potrebbe incidentalmente diventare il mio tormentone, qualsiasi gruppo per me potrebbe un giorno superare anche i Beatles. Che – detto tra noi – hanno fatto l’acido quanto e come San Battisti e la sua cazzo di moto dieciaccapi fiori rosa fiori di pesco: ma muori!

Ah, sei morto, bene.

Magari la prossima volta accendi quei fari spenti nella notte.

Insomma, tu, per me, puoi ascoltare qualunque cosa.

Ma… scusa, fa’ vedere un po’…

Mino Reitano no, Cristo!

 

Finché non mi cacciano (50)

A due mesi dall’uscita di scena di Silvio il clima nel Palazzo è diverso?

Sono cambiati equilibri, meccanismi, prospettive?

L’italiano percepisce questo clima rinnovato?

I tassisti sono esseri senzienti?

[Su L’Unità, qui]

Applausi per Stewart

Una turista italiana col suo bagaglio a mano

L’esperienza Ryanair. Perché di ciò si tratta. A partire dal sito. Un fiorire di hostess – sovente seminude – ammiccanti, pronte a farti accettare qualunque clausola vessatoria in grado di traslare il costo del tuo biglietto da “economico” a “cinquanta euro per imbarcare una racchetta!?“.

La prenotazione online: è tutto molto semplice, certo, ma occorre ragionare in modo inverso. Non si scelgono i servizi extra che interessano, si deselezionano quelli che non si vogliono. Come se al ristorante dicessi al cameriere:
– Guardi, non prendo l’antipasto del cacciatore nè quello rustico, non prendo le penne, i tagliolini, i bucatini, l’arrosto misto, la tagliata, il petto di pollo, le scaloppine, la frutta di stagione, gli amari. Nulla di tutto questo, grazie.

Assicurazione, bagaglio supplementare, macchina a noleggio, sms di avvertimento, albergo, puttane: va tutto depennato. E il pass prioritario. Questo poi: è quello che ti fa saltare la coda e ti fa uscire prima di tutti dal gate riscaldato per attendere gli altri fuori, su una navetta aperta e gelida che non parte fino a che l’ultimo della fila non si sia sbrigato. Il tutto per un piccolo sovrapprezzo.

E il misura-bagaglio? Ti fanno inserire la valigia in quella sorta di grata, a mo’ di bustina da the, misura Golem. Se passa ok, altrimenti vieni punito selvaggiamente. Imbarcare il tuo bagaglio costerà quanto e più del prezzo del tuo volo, di quello dei tuoi figli e dei figli dei tuoi figli, peggio della maledizione di Canaan. Questo si legge infatti sull’opuscolo Ryanair in caso di bagaglio eccedente le misure previste:

– Maledetto sarai nella città, e maledetto sarai nel campo.
– Maledetto sarà il tuo cesto e la tua madia.
– Maledetto sarà il frutto del tuo ventre e il frutto del tuo suolo, i piccoli delle tue vacche e la prole del tuo gregge.
– Maledetto sarai nell’entrare, e maledetto sarai nell’uscire.

Una oscenità tariffaria, un taglieggiamento al quale non puoi opporti.

Certo, anche i viaggiatori italiani ci mettono del loro: sul sito è chiarissima la politica nazista Ryanair che mira ad umiliare le razze inferiori, quale la nostra. Mai visto un viaggiatore tedesco avere problemi con la valigia, né tantomeno protestare se la sua Vergine di Norimberga di due metri e mezzo per uno non entra nel misuratore.
Ho personalmente assistito a pietose scene di gente che svuota la valigia davanti a tutti, per indossare una mezza dozzina di maglioni, pantaloni da sci, mute da sub e cappellini fiorati e poi pressare la valigia così alleggerita nel misuratore, deformarla irrimediabilmente, al fine di dimostrare alla signorina Ryanair che “Ora è ok, ma ci stava anche prima“.

Gli italiani protestano, non ci sono cazzi. Trovano ingiusto che siano loro a dover pagare per la propria negligenza. La colpa è sempre di chi è troppo rigido, di chi non chiude un occhio, di chi non adegua le proprie regole a chi ha di fronte.
Siamo solo noi a cercare di trattare importi inferiori coi vigili che ci multano, figuriamoci se non proviamo ad imbarcare come bagaglio a mano un clavicembalo ben temperato, un sarcofago egizio (trafugato come souvenir del viaggio a Sharm), una suocera obesa.
Poi il passo velocissimo verso l’aereo fermo in pista, per accaparrarsi i posti migliori, cioè nessuno. Corridoio strettissimo, sedili consunti, hostess trovate nel cassone della roba usata della Caritas e impossibilità di appisolarsi per le mille stronzate che queste provano a venderti: dalla lotteria Ryanair ai profumi, da orologi cinesi a porcherie immangiabili (e, di nuovo, costosissime).

Io personalmente nei sedili non ci sto: le mie gambe spuntano fuori dal corridoio e se riesco per puro caso a perdere i sensi un minuto sarà il loro carrello tranciarotule a ricordarmi che “YOU MUST BUY SOMETHING PERDIO!“.

Però è sempre così dolce tornare a casa con un volo Ryanair. Magari sei stato due settimane ad Oslo, con i costumi civilissimi dei norvegesi. E atterri a Pescara. E senza neppure il bisogno di aprire gli occhi capisci che è Italia. Dall’applauso al pilota.
Come se atterrare fosse proprio uno di quei plus previsti da Ryanair, che per una volta abbiamo spuntato senza dover pagare.

Credo l’applauso tutto e solo italico dipenda da questo: “ehi, siamo atterrati, siamo vivi. E non ho tirato fuori un euro per questo extra!“.

In effetti sul sito l’atterraggio non è contemplato.

 

Auguri, Stephen!

Festa di compleanno a Cambridge per Stephen Hawking, ma lui non c’era; stavolta non si è fatto fregare dal solito: “dai, soffia sulle candeline!“.

Hawking ha raggiunto i 70 anni nonostante la sua terribile malattia, che lo costringe ad una mobilità ridotta quasi a zero e a restare bloccato su una sedia a rotelle da mezzo secolo: maledetta ruggine.

Il Papa mentre fallisce nel suo maldestro tentativo di guarire Hawking

Emette voce solo tramite sintetizzatore vocale ed ogni movimento risulta terribilmente difficoltoso. Ma questo non impedisce a Lady Gaga di esibirsi.

“L’immagine del nostro universo è cambiata molto negli ultimi 50 anni, e sono contento di dare anche adesso il mio contributo”, ha detto Dio nell’andare finalmente in pensione.

Guardate le stelle invece dei vostri piedi“, chiede Hawking ad un gruppo di feticisti.

Hawking sconfitto in una tradizionale gara di testate tra scienziati

 

Da giovane ha dimostrato che i buchi neri non sono fantascienza ma oggetti reali, pur se irraggiungibili da adolescente.

E’ persino arrivato ad ipotizzare colonizzazioni di altri pianeti e trasferimenti di risorse ed uomini in altre galassie, prima ancora di Marchionne.

Hawking si cimenta in un passo di moonwalking con scarso successo

Stephen non sta bene e il suo recupero non è stato sufficientemente rapido per essere presente alla sua festa“, ha spiegato il morbo di Gehrig.

La malattia gradualmente paralizza tutti i muscoli del corpo, fino alla completa trasformazione del fisico in Nicolas Vaporidis che interpreta una qualunque scena.

Ho incontrato per la prima volta Stephen nel 1965 – ha raccontato domenica a Cambridge il suo collega e collaboratore storico Kip Thorne – e posso dire che è la persona più ostinata che abbia mai conosciuto“. In effetti non si schioda mai dalle sue posizioni.

Hawking in un raro momento di riposo

La sua frase più famosa? “Esiste sempre un raggio di luce capace di sfuggire ai buchi neri“.

E non sarà certo il nostro buon Stephen a corrergli dietro.

Auguri.

La Bomba di Lavezzi

Aveva messo da parte, con una fatica che solo un precario come lui può capire, quasi seicento euro. Per quello che doveva essere un Capodanno da ricordare, non come quello dell’anno prima, con Mauro, il vicino-sempre-un-passo-avanti, che aveva quasi fatto saltare in aria il porticato condominale, coi suoi Cobra 6, quelli che ti scavano un fosso buono per un randagio. E poi Magnum, Zeus, Superciccioli o come cazzo si chiamavano.

Renato, suo figlio, rimase affascinato da quella magnificenza di casino e colori e chiese:

– Papà, scoppiamo pure noi!
– L’anno prossimo…

Si sentiva in dovere di mantenere quella promessa, convinto che Renato se la ricordasse, che a sei anni avesse la capacità di realizzare che si stava avvicinando la fine dell’anno.

Seicento euro di botti.
Roba cinese per lo più, con inquietanti caratteri che gli ricordavano le scritte dei mostri di Mazinga.
Il tizio della bancarella li chiamava Mefisto, Fura3000, Testa Rossa, Gold Bang, Tric Trac, Il Cipollone, Orione, Il Comandante, Vietcong.
Nomi che erano tutto un programma.

Dalle nove Antonio si mise là a sistemare tutto sul terrazzo di casa. Era riuscito a convincere l’ex-moglie a farsi affidare Renato per quella sera, dietro l’ennesima promessa di pagare con più regolarità l’assegno.

Il ragazzino era tutto un fremito:
– Dai dai! Quando li scoppiamo? E’ ora? Adesso?
– Pazienza… a mezzanotte inizia lo spettacolo.
– Ma qua stanno già tutti scoppiando!
– Vedrai, i nostri saranno tutta un’altra cosa…

Si avvicinava troppo lentamente quell’ora, sul terrazzo di Antonio Esposito da Napoli, uno stereotipo più che un nome, una condanna che ne marchiava le origini prima ancora di poter dire da dove venisse.

– E’ ora? Adesso?
– Tra poco…

Culi e tette in paillettes, orchestrati da una Barbara D’Urso in grado di spiegarti con la sola presenza scenica il concetto di “cattivo gusto”, si affannavano su Canale 5 a dimostrare che la crisi era tutta una balla. S’era da essere felici perché il duemilaundici era finito e il nuovo anno sarebbe stato certamente un’altra cosa.

Sulle “pinne, fucile ed occhiali” di un Edoardo Vianello che – ora so – sta scontando il suo inferno in questa vita da playback, circondato da troiette saltellanti che l’avrebbero data trent’anni dopo la nascita di quella canzone per sculettare davanti una telecamera, Antonio si alzò. Predispose gli ultimi fuochi a complemento della coreografia e si allontanò di un paio di metri, tenendo da parte il piccolo che non stava più nella pelle.
Uno dopo l’altro iniziarono a volare in cielo palle colorate che esplodevano in mille graffi al cielo, disegnando in cielo sfumature magnifiche, da illuminare il sorriso di Renato come mai il padre aveva visto.
I fuochi più grossi, i “botti” veri e propri erano stati sistemati a debita distaznza, nel giardino condominiale, proprio in fondo, accanto al piccolo appezzamento di terreno abbandonato, per evitare ogni possibile danno.

Dopo dieci minuti di arazzi in cielo e botti che manco l’ultima Libia, Antonio disse al piccolo di aspettare là dov’era, ché avrebbe controllato che fine avesse fatto “la Bomba di Lavezzi”, il botto dei botti di questa fine di un annus horribilis.
Si avvicinò con tutta la cautela del caso – mai avrebbe compiuto l’imprudenza di farsi saltare una mano per dei botti. La Bomba non era esplosa. Ci versò su dell’acqua e la lasciò là dov’era, per la notte, così da evitare ogni possibile disgrazia. L’indomani l’avrebbe gettata via.

Si voltò, vide Renato salutarlo con la mano dal terrazzo e quasi gli vennero le lacrime agli occhi per quel sorriso, che era la sola cosa che gli restava.
Mentre rispondeva al saluto, Mauro, il vicino-sempre-un-passo-avanti, quello che una volta tanto era stato battuto, tirò fuori la pistola d’ordinanza, quella che una guardia giurata non ha mai usato in vita sua, e iniziò a salutare il nuovo anno con dei colpi in aria, sotto lo sguardo ammirato dei figli e terrorizzato della moglie.

L’intero vicinato si voltò. Solo alcuni però seguirono con lo sguardo la traiettoria di quel proiettile che schizzava impazzito prima sul muro che costeggiava la proprietà e poi dritto come un fuso attraversare la gola del piccolo Renato, passando attraverso la ringhiera del terrazzo.

Lo stesso Mauro non si accorse di niente – c’era da terminare il caricatore.
Solo Antonio rimase di ghiaccio per alcuni interminabili secondi, nei quali vide suo figlio cadere a terra, pesante come un abete abbattuto, col visino annegato nel suo stesso sangue.

E il suicidio di Antonio, un mese dopo, davanti alla tv trovata accesa. Mentre Paolo Fox magnificava “lo splendido Urano che accompagna i nati sotto il segno della Bilancia, in questo primo fulgido mese dell’anno“. Bilancia, come Antonio. Fulgido come Paolo Fox.

E’ che la vita ti prende per il culo.

Ma la cosa peggiore è che pure quell’anno il vicino era riuscito a fare qualcosa più di lui.