Il tormentone marò, cotto in tutte le salse, è un tipico reflusso comunicativo, caustico e demolitorio, di quello che originariamente era un problema reale (e lo resta, ma solo per due famiglie: le loro, quelle che lecitamente possono urlare: “Ridateci i nostri marò”, anche se le famiglie in realtà interessate dal problema sarebbero quattro: ci contiamo pure quelle dei pescatori, ma essendo indiani per noi valgono meno e non le consideriamo esattamente come quando provano a venderci le rose brutte), in questo tipo di società perennemente alla ricerca della dissacrazione.
I social hanno la capacità di traslare tutto su un piano diverso da quello nativo: il dramma diventa macchietta, il caso internazionale sfuma in goliardica rappresentazione di eventi che manco il Bagaglino, solo Salvini resta Salvini e fa ridere così.
Il fenomeno, in particolare questa trasposizione della vicenda marò su un piano tutto ilare, assume in questo momento proporzioni notevoli: dappertutto, su Facebook, è un fiorire di battute sulle “preoccupazioni” circa la sorte dei due ufficiali.
Io sarei curiosissimo di chiedere a loro, ai marò, dico, un parere su quanto a proposito sta avvenendo. Lo apprezzano? Si stanno incazzando? Ce ne fotte qualcosa?
Agli inizi c’era una semplice descrizione degli eventi e una contrapposizione tra innocentisti e colpevolisti, tra patrioti a tutti i costi che avrebbero voluto riportare in Italia i due nonostante le accuse (direi: a prescindere dalle stesse) e accusatori per quello che appare un evidente crimine commesso. Oggi registriamo uno spostamento su un umorismo che in fin dei conti depotenzia la vicenda, per tutti. Sempre tranne che per i due interessati. E questo, questa introduzione dell’elemento dissacratorio, reiterato, compulsivo quasi, se è per molti già diventato stantio e noioso, ha a mio parere il merito di aver ucciso l’ipocrisia: quella che porta i notiziari e “l’opinione pubblica” a esprimere accorata preoccupazione per due illustri sconosciuti, che in comune con tutti noi hanno semplicemente il passaporto italiano ma che sostanzialmente hanno i loro cazzi esattamente come tutti, con l’unica differenza nella poca frequenza circa l’imbattersi in due pescatori indiani se resti a fare il bagno a Silvi Marina.
Il fiorire di battute sui due marò è, a mio parere, un interessante punto di partenza per una riflessione e magari per esperire un atto di correttezza verso la propria onestà intellettuale. Ci aiuta a tirar fuori quella parte di noi che vorrebbe urlare in faccia ai marò: “Senti, io non ti conosco, ho i miei cazzi, ti posso al massimo dire che mi dispiace umanamente di questi casini, ma lo faccio solo perché proietto me stesso nella tua situazione, quando, in realtà, non sento un reale dolore per quello che ti sta accadendo. E, a dirla tutta, penso anche “meglio a te che a me”. In sostanza sono un essere umano, programmato per la sopravvivenza, anche mentale, e per non subire il peso dei problemi altrui, proprio per mia preservazione. Aggiungo che non ho scelto, per mestiere, imbracciare un fucile, il che mi allontana ulteriormente da te a livello di empatia. In sostanza, di te non mi frega un cazzo, ma sappi che non frega neppure ai fascisti che urlano “ridateci i marò!”. Per loro tu sei un espediente, uno strumento per esprimere un disagio mentale e una rivendicazione sociale, ammesso che la solidarietà di gente con la licenza elementare e Mussolini come sfondo desktop possa esserti in qualche modo di conforto. Finisco dicendo che neppure dei due pescatori morti, uccisi da te o crepati di infarto, sostanzialmente mi fotte, per lo stesso identico motivo. Sono un uomo, le persone muoiono, io stesso morirò. Interessarmi alla tua o alla loro causa avrebbe per me un senso solo se me ne venisse un vantaggio. Tutti quelli che ti diranno diversamente sono dei falsi, con te e con loro stessi. La solidarietà sociale, anch’essa umanissima, mi spinge più facilmente a tirar fuori il portafoglio per spedire qualcosa in Nepal (ma anche qui non perdo il sonno la notte per quelle morti, non posso permettermelo) che a interessarmi alle tue vicende giudiziarie. La mia solidarietà umana si ferma poi alla cerchia delle mie conoscenze e più le persone mi sono vicine, più sento reale sofferenza per le loro tragiche vicende. Ma tu per me sei uno sconosciuto, come lo sono io per te. In quattro parole, caro marò: chi cazzo ti conosce“.
Dei due marò ci interessa oggi il fatto che siano fonte di ispirazione umoristica.
Ed è questa, la desolante e insieme rinfrancante, liberatoria, umanissima verità.