Le parole che non ti ho detto

Ero solo, per la prima volta a Los Angeles. Il motel era a Glendale, così da permettermi di visitare Hollywood, la strada con le stelle e quelle menate là con una certa facilità. Vicino l’osservatorio Griffith, dal quale si poteva godere di una veduta spettacolare sull’intero smog della città.

Decisi di passare la serata in un locale nella vicina Pasadena, perché avevo letto su Tinder Tripadvisor che là era facile incontrare stelle del cinema oppure perfette sconosciute molto carine, e io alle perfette sconosciute molto carine non sapevo resistere.
Entrai e venni avvolto da una nuvola di vapore aroma liquirizia – c’erano degli spruzzatori all’ingresso tipo decontaminazione nucleare, solo che invece delle radiazioni ti toglievano ogni virilità.
Feci come nei film, mi avvicinai al banco e chiesi una birra. E come nei film mi si avvicinò una perfetta sconosciuta molto carina, come quelle descritte un paio di righe sopra. Però non mi parlò, non attaccò bottone come speravo, “Sarà l’aroma liquirizia”, pensai. Così mi feci coraggio e le chiesi se potevo offrirle qualcosa. Niente, fu molto più semplice del previsto perché sorrise e disse di sì (probabilmente era una liquirizia depotenziata o lei aveva il naso chiuso).
Come succede in questi casi una parola dopo l’altra e ci congratulammo con noi stessi per aver capito come si costruiscono le frasi.
E una frase dopo l’altra e ci ritrovammo da lei, che abitava là vicino.

  • Vivi sola?
  • Sì, ma c’è una cosa che non ti ho detto.
  • Sei fidanzata?
  • Sì.
  • E allora? Cosa facciamo?
  • Quello che vogliamo. Ma senza baci in bocca.

Mi pareva un buon compromesso. Del resto se al fidanzato bastava questo mi sembrava giusto accontentarlo.

Mi portò nella camera da letto e mi chiese di aspettarla: doveva andare in bagno.
In un momento così altamente erotico un uomo può pensare cose incredibilmente fuori luogo. A me venne in mente: “Io non farei mai la cacca in un momento simile”.
Da lì a farsi domande sui mille misteri delle donne è un attimo: “Perché le donne vanno in bagno sempre in due?”, “Come fa una donna a usare un cellulare se è allergica ai libretti di istruzioni?”, “E’ possibile che una donna sappia guidare ma non riesca mai a parcheggiare rispettando le linee per terra?”, “Qual è stato in questo post il più becero luogo comune sulle donne?”.
Dopo cinque minuti uscì, con addosso gli stessi abiti di prima, e ci rimasi male perché mi ero fatto tutto un trip su lei e un négligé di quelli dei tempi d’oro di Barbara Bouchet, prima che invecchiasse e diventasse Barbara Bush.

  • Come mai non ti sei spogliata?
  • Vedi, c’è un’altra cosa che non ti ho detto.
  • Dimmi pure.
  • Io non sono la donna che credi.
  • Ma cosa pensi che io creda?
  • Non lo so, ma non voglio darti una impressione sbagliata.
  • Ma stai tranquilla, se hai qualcosa da dire sono qua, ti ascolto.
  • Sì, ma…
  • Non preoccuparti, non dobbiamo fare nulla. Se vuoi parliamo tutta la notte.
  • Sei dolcissimo. E mi piaci davvero. No, niente, non devo dirti nulla, aspetta.

E tornò in bagno di nuovo. Stavolta le aspettative sul négligé alla Barbara Bouchet (originale) c’erano tutte e più che motivate.
Ero là a pensare al Kamasutra e a come avessero voglia gli indiani di stare a seguire le istruzioni riportate su un libro mentre facevano sesso, voglio dire, ti immagini?

  • Allora, tu mettiti così…
  • Così?
  • No, guarda qua a pagina 35, la gamba sinistra attorno al mio alluce…
  • Aspetta…
  • No, non così… il gomito non va là…
  • Così?
  • Mi accechi il terzo occhio…
  • Ma Budda Eva! Mi sono incastrata!

Ma anche stavolta uscì dal bagno vestita esattamente come era entrata. E ci rimasi un po’ male.
Si avvicinò a me come se dovesse dirmi qualcosa di importante, e io la incoraggiai a parlare, con un sorriso. Non ci fu bisogno di dirle nulla.
Si sedette accanto a me, le presi la mano. Fece un grosso respiro e:

  • Scusami, ma c’è un’altra cosa ancora che non ti ho detto.
  • Hai il cazzo.
  • Sì.

Quella fu l’ultima volta che la vidi.
Los Angeles, dico.

Un piede, una gomma, un feticista prêt-à-porter

 

Parcheggiai come tutte le mattine nello stesso punto: a quell’ora la strada era sgombra, gli operai del cementificio non avevano ancora preso possesso del viale, con le loro utilitarie tutte diverse, tutte uguali, financo al Padrepio e al rosario allo specchietto. Qualcuno azzardava un peluche, magari regalato dalla morosa che credeva ancora alla forza degli orsacchiotti e che probabilmente adesso si faceva sbattere da qualcun altro in un’auto poco dissimile. Ma a me piace pensare che fossero ancora insieme e che lei si limitasse a succhiarlo al commesso di Zara durante i turni di riposo. Sono un inguaribile romantico.
Il posto, il “mio” posto, era sul lato opposto della fermata dell’autobus. E c’erano sempre le stesse anime. La badante sovietica, talmente grossa da farti credere che da quelle parti ci si incarni in matrioske. La vecchia ultraottantenne, che non so dove cazzo andasse a quell’ora, magari al cimitero a tener compagnia ad un mucchio di ossa come le sue. O solo a prender in abitudine quelle croci. Il ragazzo di famiglia povera, che ne cambiava tre per arrivare a scuola.

Ma quella volta c’era lei. Mai vista prima. Bionda, splendida, nei suoi vent’anni ancora lontani dall’essere.
Una cosa ultraterrena.
Perché là? Un caso? L’avrei iniziata a vedere tutte le mattine? Aspettava qualcuno?
Ero immerso in domande che mi tenevano fisso su di lei. Ma più su quel piede. Dondolante. Fasciato da un paio di consunte All Star bianche come solo una poco più che diciottenne può permettersi senza sembrare una pezzente.
Cuffiette, jeans stracciati che non capivi se ci fosse più stoffa o più carne all’aria, maglione traforato giallo che manco uno Stabilo Boss, a scoprire una spalla bianchissima e di una malizia indescrivibile.
Ma quel piede.
Quel dondolio maledetto era un perverso canto d’amore, una sensuale danza erotica, un armonico trivellare nel mio ingiustificabile subbuglio ormonale.
So per certo che la Converse vive grazie a queste ragazze, altrimenti avrebbe già chiuso baracca da tempo. E che regala ad improvvisati feticisti, come mi accorsi di diventare in quel momento, attimi di pura estasi e follia testosteronica.

Lei non mi vide, ne ero certo. Non stava facendo nulla per alimentare il mio ridicolo sbavare come un cane di fronte all’osso.
Non sarei potuto scendere dall’auto senza mostrare gli effetti di quella scena sul mio jeans sofferente. Io, sofferente.
Poi la vidi dare un colpo di tosse. Ed un altro. E un altro ancora. Come se le fosse andato di traverso qualcosa – magari la gomma.
Mise entrambi i piedi a terra, destandomi dall’ipnosi da dondolio, e cominciai a vederla per quello che era: una splendida ragazza ma non un feticcio.

Ero libero. Credevo.

Continuò a tossire, sempre più forte. Le persone accanto si voltarono verso di lei. Che si alzò e poggiò una mano al vetro della pensilina, piegandosi con la testa in avanti e sempre più in basso, come a volersi liberare di qualcosa.
Sembrava stesse soffocando.
Il ragazzo le si avvicinò e le chiese se tutto andasse bene ma lei era ormai cianotica. In breve cadde a terra sulle ginocchia e tutti le furono d’attorno. Vidi un uomo prendere il telefono e chiamare qualcuno, agitandosi – forse l’ambulanza. Ma nessuno sapeva davvero cosa fare. Fu in quel momento che ebbi l’impulso di uscire dall’auto e saltare dall’altro lato della strada. Fu un attimo: spostai le persone, sollevai la ragazza e la presi da dietro. Le praticai una improvvisata manovra di Heimlich, senza neppure sapere bene se andasse fatta in quel modo. Due, tre, quattro compressioni violente e lei sputò quella cazzo di gomma – sì, ci avevo preso.
Riprese pian piano colore. La sdraiai a terra un per farla riprendere ma subito la sollevai dicendo a tutti che l’avrei portata in ospedale con la mia macchina.
Tutti si congratularono con me mentre la tenevo tra le braccia cone uno sposo la sposa.
Lei, la mia Cenerentola con le scarpine arrapanti.
La accomodai in auto e partii.
No, niente ospedale. Lei teneva gli occhi chiusi e lacrimava, e con un filo di voce mi ringraziava, continuamente.
Io non dissi nulla. Le accarezzai i capelli un paio di volte.
Guidai per una ventina di km, fino ad arrivare in piena campagna.

– Siamo arrivati.
– Eh? …Cosa?
– Siamo arrivati.
– Ma… dove? Qua non c’è niente.
– Esatto. Togli le scarpe.
– Eh?
– Le scarpe.
– Ma…
– Togli ora quelle cazzo di scarpe!

Vidi il terrore nei suoi magnifici occhioni. Non osò dire una sola altra parola. Si sfilò le scarpe senza neppure slacciarle e le lasciò di fronte a sè. Ovviamente non indossava calzini.

– Non farmi del male, ti prego.
– Tranquilla.
– No, tu vuoi violentarmi.
– Eh? Violentarti? Ma che cazzo dici?
– Ti prego, non farlo.
– Bimba, non hai capito un cazzo. Esci.
– No, mi vuoi violentare qua e poi mi ammazzi!
– Ti ho detto di uscire!

Aprì la portiera terrorizzata. Uscì e non si mosse da quella posizione.

– Chiudi la porta.
– S… sì.

La guardai per l’ultima volta, terrorizzata. E ripartii.
La vedevo dallo specchietto allontanarsi rapidamente, tra la polvere che alzavo da quella stradina arsa dal sole.

Tutto quel che desideravo era là, accanto a me.

Numero 37.