Perché ti lascio

Senza nome-4

Ci sarebbe così tanto da dire, su quello che sei, su come ragioni. Se io avessi un minimo interesse ancora nella tua persona ti inviterei a leggere, a studiare e studiarti, perché è avvilente la tua totale mancanza di strumenti di decifrazione della realtà. Ed è per questo che le persone come me non ci mettono nulla a rigirarti come vogliono. Un coglione qualunque (come me, appunto) ti può convincere di ciò che vuole. E spillarti soldi anche.
Questo però vuol dire vederti continuamente ronzare attorno mosconi interessati. Ed io non lo reggo più. Nonostante il livello davvero infimo di quelli che ti sbavano dietro.
All’inizio pensavo fossi solo una zoccola. Poi ho capito che davvero non ti rendi conto che se qualcuno ti muove un apprezzamento lo fa perché interessato. E non è ingenuità, no: è incapacità di elaborazione.
E poi sei zoccola, certo.

Possediamo registri diversi. Ma questo non deve rappresentare per te una scusante: il tuo non è “diverso ma comunque valido”. No. È “diverso” nel senso di minore, minorato, semplificato, poco sviluppato, offensivo per chi ti ascolta.
Il continuo scontro tra noi veniva esattamente da questo: tua incapacità di analizzare le cose in modo maturo. Mi sembrava di avere sempre a che fare con una adolescente col Chupa Chups in bocca e il telefonino in mano. O viceversa. Ogni situazione leggermente complessa la gestivi come Hulk avrebbe gestito un lavoro di Damien Hirst.

Tu e i tuoi intercalare, le tue frasi da saggezza popolare che puzzano di ascensori condominiali coi cazzi antropomorfi disegnati col pennarello, ambienti scrostati che ascoltano da sempre frasi come “Quest’estate pare non voglia proprio arrivare, eh?“.

Una donna la tieni coi soldi, con l’amore o col cazzo“. Questa la tua frase storica, che poi non ho mai capito se “o col cazzo” fosse un terzo punto oppure una considerazione ad excludendum in caso di assenza dei primi due.
Io non ho soldi e l’amore per te… beh, lasciamo perdere. Non ho mai provato nulla davvero. Proprio per la tua pochezza, per il tuo non consentirmi mai una discussione ragionata, su qualunque argomento. Si stava là, insieme.
E aggiungo: non sei mai stata una bellezza – diciamo la verità – ma gli anni adesso si vedono tutti e questo ha dato la mazzata finale al mio voler continuare una storia con una persona che neppure più può contare su un minimo non dico di avvenenza ma proprio di decenza estetica.

Sì, non hai nulla di speciale, non sei che una delle tante. Sotto la media anzi. Perché puzzi di vecchio, hai l’anima incartapecorita, gestisci un campionario di una dozzina di frasi fatte, buone per tutte le stagioni. E io sono stanco di tutto questo.
Stanco di ascoltare le stesse quattro storie. Stanco di sentire i soliti due aneddoti.

La cosa più grottesca di questa mia analisi è che è destinata a non essere capita, proprio per la carenza degli strumenti di cui sopra. Ciò che provocherà sarà solo una ulteriore, stizzita reazione, dato che l’amor proprio è stato ancora ferito.
Questo perché sei da sempre immersa in una visione delle cose semplificata, quella che il tuo gergo ti spinge a definire “vera” (come se le altre fossero finte), sottolineando spesso con forza aggettivi come questo o simili, o frasi aventi ad oggetto la tua genuinità o il tuo essere “così”, quando si tratta ancora di frasi del tutto prive di concreto messaggio sottostante, che provocano nell’interlocutore che questi strumenti ha, un senso di profondo disagio da contatto con il nulla.

Insomma, non cercarmi più, non chiamarmi più. Dimenticami.
Ho intenzione di cancellare ogni ricordo di noi insieme, perché me ne vergogno, mi sento mortificato dalla sola idea di aver potuto condividere con te anche un solo istante.

Sei un essere ridicolo, è per questo che ti dico addio, nonna.

Io non volevo

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Sul treno per una destinazione che domani non sarà più, mi vedo incontrare gli sguardi assonnati di gente senza nome. E mi piace disegnar loro addosso storie.
Quest’uomo distinto sarà per un incontro d’affari, la boccolatissima matrona esteuropea tornerà a fare la badante a qualche vecchio piscialletto con due risparmi da parte, queste due ragazze… Ecco: studentesse. Hanno tirato fuori fotocopie annotate, glossate, evidenziate. Avranno un esame in giornata. E mi fermo a contare le mille sottolineature, colori diversi, e a ricordare mentre ero io, a credere che quelle linee potessero tracciare il mio futuro. Ma ogni età deve vivere le proprie illusioni, è giusto così.
Le vedo impegnate a riportare alla mente tutte le vitali nozioni che domani saranno utili quanto una mentina ad un assetato.
Scendono, il signore e la la matrona. Resto solo solo con le ragazze.
Sono belle come solo a quell’età possono e una pare accorgersi dei miei sguardi e non sembra gradire, ma il mio interesse era tutt’altro che quello che ora mi rendo conto di aver mostrato e abbasso subito gli occhi, ma questi mi cadono sulle gambe troppo lunghe e scoperte di quella ragazza, che ora mi sembra ancora più convinta che ci fosse malizia in tutto questo ma io davvero volavo con la mente. Mi viene da rassicurarla ma non mi esce nulla di più intelligente che un “nono, non è quello che… Sì siete belle ma…”. Sul “ma” mi rendo conto di aver aggravato la mia posizione e mi sento completamente coglione. Istintivamente mi viene da mettere una mano sulla spalla di quella che più mi pare spaventata, e mi tira fuori un urlo. Al che, sempre senza valutare alcunché ma per pura reazione automatica, le tiro un destro sulla faccia. Cade riversa sul sedile. Il sangue le cola copiosamente dal naso. La sua amica si mette ad urlare ed io, sempre senza ragionare, le afferro la testa e la sbatto violentemente sul mio ginocchio. Penso di averle procurato un trauma cranico ma non riesco a pensare. Sono nel pallone: ho due ragazze svenute e ferite davanti a me, senza neppure aver realizzato cosa sia accaduto. Mi rendo conto di aver fatto un casino e tutto quel che mi viene è tirarlo fuori e scoparmele prima che rinvengano. So che potete immaginare la mia situazione emotiva.
Mi rendo conto che forse sto facendo qualcosa di profondamente sbagliato ma ora è andata e mi prendo pure il culo.
Ma dopo aver terminato capisco di aver ulteriormente aggravato la mia posizione e, sempre senza pensare, tiro giù il finestrino e: una, due e me ne libero mentre attraversiamo un cavalcavia.
Nessuno sembra essersi accorto di nulla.
Mi ricompongo.
Certo che ora c’è spazio.

Il nonsense del weekend. Corpi cavernosi e burro.

Fuori piove. Dentro meno. Nel deserto del Gobi penso ancor meno ma non è questo il punto ora.
Sento latrare e abbaiare, là fuori, ininterrottamente. Ma no: non la farò rientrare così presto, mia moglie.
Una mosca tenta di trovare la strada di uscita, ma niente. Eppure io abito qua da sempre, bastava chiedere.
Un commesso viaggiatore bussa alla mia porta, vende libri, uno solo anzi: “Morte di un commesso viaggiatore”. È molto depresso infatti.
Niente, non lo compro. Gli dico che aspetto esca il film. Lui muore ma non mi impietosisco così.
Ho un po’ fame e apro il frigo. Niente, sempre fame.
Apro anche le ante dell’armadio e un paio di cassetti. L’appetito non aumenta, del resto vien mangiando.
La crisi mi ha colpito duramente: per risparmiare, da un po’, solo yogurt con fermenti lattici morti.
Esco a fare due passi. Durata totale: 0.8 secondi.
Al mio ritorno è tutto come prima: se non fosse per la fiducia nella scienza comincerei a mettere in discussione il principio entropico.
Il mio gatto è esattamente nella stessa posizione di quando l’ho lasciato. Ma saranno tre mesi ormai.
Per dimenticare i miei problemi comincio a bere, bere, bere finché non arriva un bagnino che mi recupera e mi riporta a riva (quando c’è da bere per dimenticare lo faccio in grande).
Sulla respirazione bocca a bocca sono molto passivo, specie se sono quello da salvare.
Oggi stringerò nelle mani un pettirosso. Che prima non lo era.

Il post più spocchioso del millennio (e molta, molta cacca)

Questo post non è per te che lo stai leggendo, ed il paradosso è proprio in questo: sarebbe per chi qua non entrerebbe mai.
Se sei qui è perché sei curioso/a, vuoi conoscere punti di vista altrui/a, non ti spaventa uno scritto con più di venti parole/uh.

Ecco, di questo volevo parlare: della voglia di confrontarsi e crescere, di non appiattirsi sulla mediocrità ma provare ad emergere, per godersi le cose davvero di livello della vita. E ce ne sono, nonostante tentino di nascondercele (LA CASTAAAA!!!!11).
Lo spunto è una pagina balorda che gestisco su Facebook, che prende in giro Fabio Volo. L’idea è semplice: c’è una citazione illuminante del nostro eroe e dunque c’è il perculamento automatico (il modo migliore di prendere in giro Fabio Volo è copiare pari pari le cose che dice, senza nulla aggiungere). E il cerchio è già chiuso, l’obiettivo è raggiunto. Nonostante tutto questo non porti a concretizzarsi il vero sogno dei fan di quella pagina. Ma non si può legittimamente sperare che un gruppo di persone con un desiderio preciso riesca a provocare la morte di un uomo.

Purtroppo.

Scherzo.

Purtroppo.

Poi capitano cose particolari, tipo amici facebookiani che davvero apprezzano Volo. E la cosa mi lascia perplesso, non solo relativamente al fatto che uno con questi gusti possa essere amico mio. No, proprio in senso oggettivo: davvero esiste gente capace di apprezzare Volo. Ricordo, per chi fosse distratto, che siamo nel 2013, andare in giro con sveglie al collo dovrebbe essere solo una moda passeggera e internet ci consente di imparare tante cose a costo irrisorio.

Ma la domanda vera che pongo qui è un’altra: davvero va esternato questo apprezzare una cosa palesemente appartenente alla mediocrità? Davvero non senti che queste dovrebbero essere robe da mantenere riservate? Tipo quando ti masturbi? Cioè, se ti fai una sega in bagno, non è che poi la condividi sulla tua bacheca. Magari su Youjizz.

Mi spiego, cercando di limitare al massimo l’aspetto-spocchia, che so, effondere generosamente già da queste prime righe.

A me è capitato di vedere, a casa, Natale sul Nilo, su Sky. C’era Boldi (Dio mio), De Sica, c’erano le tette finte, c’erano le risate con le scoregge e le scoregge con le risate. Le pernacchie. Boldi (Dio mio) tiene sempre delle pernacchie nelle sceneggiature. Non necessariamente fatte con la bocca. E si torna alle scoregge.

Me lo sono visto perché a me piace informarmi. Sì: informazione. Io non riesco a sentirmi tagliato fuori da ambiti della nostra società. E mi interessano anche i meccanismi comici, i tempi, le trovate. Tutto quello che NON c’è in quei film.
Diciamo che la mia è stata una visione ad excludendum: lo fa Boldi (Dio mio)? Bene, io lo eviterò.
Ma me lo sono visto. E mi sono visto i Pierini e le supplenti, i Bomboli e i suoi “Tz’, Tz'”, i “Non è la Rai” e le sue ninfette.
Visto tutto. Che non significa però apprezzare.

Non è che vedere un film con Boldi (Dio mio), conoscere le sue cose significhi anche apprezzarle. A fortiori, neppure pubblicamente esplicitare un amore per Boldi (Dio mio). Perché quei film, OGGETTIVAMENTE (scusate, mi si incastra il CAPS LOCK), fanno cacare.
No, non si tratta di gusti qua. Lo spiego tecnicamente: c’è la cacca e c’è la non cacca. Quella è la cacca. Grande.
Mi puoi dire: “A me allora piace la cacca”. Va benissimo, ma allora sii coerente e inizia a volare e ronzare. E porta fino in fondo la tua vocazione: fatti schiacciare con una paletta.
Se sei onesto intellettualmente tu non puoi darmi quella risposta. Non può piacerti la cacca. Devi dire come stanno le cose davvero: “Ehi, sono io la cacca!”. Allora ci siamo e tutti d’accordo.

Se ti piace Fabio Volo il problema è reale: non è Fabio Volo. Sei tu.

Sei tu che non ti sei mai fermato sugli scaffali a cercare di comprare un libro vero, magari senza le faccette barbettate in copertina.
Il problema sei tu che la sera esci sempre e solo con le amiche, sempre le stesse, e non hai mai provato a passare una serata con Arthur Miller.
Certo, non sei la Monroe.
Il problema sei tu, che al cinema vai a vedere appunto Natale sul Nilo e non ce la fai a guardare nulla di Nolan. Perché non lo capisci.
Ehi, non parlo di Claude Lelouch, eh. Parlo di uno che tutto sommato intitola un film “Batman begins”. Cioè, ce la puoi fare, eh.

Ma la cosa che a me, spocchiosamente, fa ancora più specie è al livello tre:
livello 1) Leggi Fabio Volo
livello 2) Trovi Fabio Volo gradevole, condivisibile, piacevole.
livello 3) vuoi che le persone lo sappiano, non provi vergogna per questo.

Ecco. A me questo spaventa enormemente. Una dichiarazione di mediocrità ostentata. Di più: un desiderio di appartenenza ad una determinata fascia sociale, culturale. Che è quella nella quale trovi tutta quella gente con la quale non parli di nulla in grado di farti crescere.

Racconto una mia esperienza personale: a me mancava totalmente cultura musicale. Per mio limite, per essermi sempre interessato ad altro. Ad un certo punto ho preso atto di tanta pochezza e ho cominciato a studiare. A leggere, ascoltare. A chiedere consiglio a chi ne sapeva più di me (Santo Federico Gross). A tutt’oggi sto faticosamente cercando di migliorare e posso dire che non sono più al livello di qualche tempo fa: riesco a distinguere la cacca dalla non cacca. E mi piace la non cacca. Poca roba? No: per me è già tantissimo.

Quel che dico è però che quando non avevo alcuna conoscenza del mondo musicale ero comunque consapevole di vivere una defaillance culturale. Ero un handicappato. Mi sentivo tale. Sapevo di perdermi qualcosa di bellissimo. E mai, mai, mai sarei andato in giro a vantarmi di questo, ad ostentare il mio apprezzare l’ultimo di Vasco (che, per la cronaca, mi faceva cacare anche prima che Bersani suggellasse, con le sue mossette in macchina, ogni sua fine musicale).

Voglio dire: ero consapevole che quella roba che sparano alla radio, oggettivamente, fosse una merda. E già da prima non trovavo qualità musicale in tutto ciò che erano le hit di Lady Gaga o Madonna.
Ma non basta: questa mia deficienza la soffrivo in silenzio. Cercando di non mostrare pubblicamente che mi mancasse un pezzo. Non avrei mai condiviso su Facebook “Pokerface”, cristosanto! Non avrei però avuto molto da consigliare musicalmente. Dunque tacevo.

Ecco: una frase come: “io adoro Fabio Volo” mi spaventa, umanamente e socialmente. Significa che c’è una precisa assunzione di mediocrità, ma non in forma di mera accondiscendenza o di venire a patti col proprio essere limitati. No: c’è un “orgoglio coatto”, nel senso verdoniano del termine. Un essere fieri di non arrivare a qualcosa, una esternazione pubblica del proprio non aver studiato (nel senso ampio del termine: interessarsi a qualcosa e approfondirla), non essersi sforzati di migliorare.

Una dichiarazione d’amore verso il vuoto, l’abulia, l’abbandono di ogni lotta per tentare crescere.

Sai cos’è davvero terrificante?

Tu non mi stai dicendo che ami un Fabio Volo.

Mi stai dicendo che sei un Fabio Volo.

L’italiano e la purezza della mazza

“Ho potuto sentire i primi versi da scimmia dopo cinque minuti. All’inizio non ho pensato nulla, ma poi si sono ripetuti e sono andato dall’arbitro avvertendolo che se fossero proseguiti avrei lasciato il campo. Ha provato a calmarmi, ma quando sono ricominciati i cori, allora ho pensato ‘adesso basta, non continuerò a giocare’. […] Ero arrabbiato, triste, scioccato, il fatto che cose come queste accadano ancora nel 2013 è una disgrazia, non solo per l’Italia, ma per il calcio nel mondo. […] Quando è troppo, è troppo, il razzismo non ha posto nel calcio”.

Kevin Prince Boateng, 5 gennaio 2013.

Gesto forte, condivisibile, di grande dignità.

Peccato che a Boateng sfugga un particolare: gli italiani sono razzisti. Fascisti e razzisti. Lo sono ab origine. Lo sono ancestralmente, storicamente ma di più: ontologicamente. Non è questione di scelta, di educazione o di obiettivi da porsi. È uno stato di cose, un fatto, ma anche uno Sachverhalt che arriva ad una semplicissima conclusione: “siamo razzisti perché veniamo da una cultura fascista e razzista”.

La nostra origine è in una frammentazione popolare, culturale e un “borgatismo” quale l’epoca dei comuni, che ci impedisce di “accogliere il diverso”. Siamo malfidati, non abbassiamo il ponte levatoio allo straniero, specie se questo presenta tratti palesemente diversi da quelli conosciuti all’interno delle nostre mura. Il negro è negro: troppo riconoscibile, troppo diverso, troppo grosso. Parlo del cazzo, certo. Qua non entra. Sempre il cazzo.

Non è questione più di educazione familiare o scolastica: noi nasciamo immersi in un contesto fortemente fascista, nel quale l’intera società ti insegna fin da piccolo quelli che sono i sistemi per sopravvivere, gli italici valori.
È in società che impari che se sei infermiere volontario in ospedale da quattro anni senza manco una borsa di studio hai più possibilità di vincere un concorso apparentemente aperto a tutti. È in società che ti insegnano che “comunque quello è il figlio del primario, dunque sai già…”. È in società che “comunque chiedi del dott. Vincenti e digli che ti mando io”.
Ma è sempre in società che poi se sei tu quello ad avere lo zio primario fai finta di nulla e passi avanti. Ed è per questo che io sto qua a demagoghizzare e populismizzare e neologismizzare con tanta facilità: semplice essere duri e puri se non hai il privilegio di essere sporco di merda.

E tutto questo non è affatto altro mondo rispetto ai cori razzisti a Boateng, che comunque ha a suo sfavore anche l’essere un milionario, sul quale homini poco più che abilis (si veda l’incedere, i suoni gutturali e l’utilizzo di strumenti rudimentali quali mazze e tamburi) possono sfogare liberamente le loro disoccupazioni.

È un sistema. Mentale. È un non-popolo, il nostro che ha inventato le corporazioni, già dai tempi di Roma e fino a Diocleziano, non per tutelare chi vi fosse dentro ma per chiudere fuori gli altri.

Gli altri. Perché tutti per noi sono “gli altri”.

Sono “altri” quelli altrove.
Sono “Altri quelli che vivono in diverso quartiere rispetto al mio. Hanno idee e usanze diverse dalle mie. Vuoi mettere quelli del Vomero e quelli di Scampìa?
Sono “Altri” quelli che non votano come te.
Sono “Altri” quelli che si fanno un tatuaggio se tu non ne hai. O che non se lo fanno se ce l’hai.
E non sono “Altri” visti come diversità che ti arricchisce, stocazzo: sono “Altri” ergo “pericolosi”, per definizione.

Abbiamo palii e contrade, viviamo il nostro condominio come diverso da quello accanto – migliore anzi, guarda che grondaie in rame, altro che quelle in plastica di quegli “altri”.

Ci terrorizza tutto ciò che è nuovo. Per questo abbiamo un Papa in casa: rappresenta la continuità medievale, talare, di pensiero. Un uomo in gonna che si affaccia ad un balcone – genta a bocca aperta all’insù, con un’evidente corrispondenza tra postura e pensiero – e parole misurate, rassicuranti: “State calmi, non cambierà mai nulla. Pace, amor… ehi, è un frocio quello?”.

Queste chiusure iperconservatrici servono agli italiani per la coesione e la stabilità sociale, che altrimenti mancherebbe del tutto, parlando persino dialetti diversi a distanza di venti km.
Il punto ancor più dolente è che questa convivenza tra origini tanto diverse ha accentuato altri beceri caratteri dell’umanità italica: la sfiducia nell’altro e nel sistema centralizzato, nello Stato e nelle strutture di governo.
Il dentista mi lavora in nero per non dare soldi “a quelli là”, che sono lontani, dunque ostili.
La Lega trae nutrimento da questo modo tribale di pensare, dal “Roma ladrona”: fa leva su pulsioni assolutamente reali ed esistenti: l’identificazione in micro-comunità, in coniurationes fra piccoli gruppi di cittadini. Perché Bergamo alta è già diversissima dalla bassa.

L’Italia non esiste, caro Boateng.
Non sto dicendo che non esistano persone aperte e progressiste, certo. Sto dicendo che è proprio il concetto di Italia a mancare. Perché lei, in Italia, si troverà di fronte non italiani ma tribù ed individui. E lei, caro Boateng, frequenta le tribù italiche peggiori, quelle degli stadi, quelle nelle quali è più facile trovare lo stato dell’arte del pensiero ristretto, borgataro e fascista. Dunque razzista.
Provi a passare un pomeriggio da Feltrinelli invece di presenziare a qualche festa per l’apertura di un nuovo club di tifosi: forse sarà più facile trovare gente aperta. Certo, anche in libreria troverà il medico che mentre sfoglia Ezra Pound la guarderà male. Ma probabilmente non si metterà a farle “Buuu!”.
Oddio, magari se è logopedista.

Lei è negro, caro Boateng. Un negro in un paese non-paese. E questo per gli italioti è colpa sufficiente.
È Solo da tirare le somme e prendere atto che il nostro è un popolo disgraziato. Disgraziato come pochi altri al mondo.

È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
[…] La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. […]
Questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.

Manifesto della razza, 5 agosto 1938.

Ah, c’è un modo in grado di far diventare l’italiano davvero aperto al diverso. Ce lo insegna la storia.
Margherita Sarfatti era ebrea ma Mussolini se la sbatteva con piacere.
Dunque la ricetta per aprirci al diverso è chiara: la figa.
Ma quello è sempre stato linguaggio universale.

Bestie sfigate

Ci sono segnali di grossa distanza tra le persone e la classe polit… Ahahah! Scherzo: vi parlerò di giraffe.
Ve lo sto dicendo chiaramente, GIRAFFE. Poi non ditemi che abuso di catafore.
C’è qualche animale più strano e comunque meno “documentariato” delle giraffe? Pensateci.
Come vivono? Come si spostano? Migrano? Come si riproducono? Che fanno a Capodanno?
Sui vari canali Animal Channel e Discovery Bestie vedo sempre e solo ‘sti cazzo di ghepardi. Che corrono, puntano vigliaccamente una gazzellina di tre kg con tutti gli zoccoli e se la mangiano. Quando quella magari si stava facendo i cazzi suoi e aveva già fissato l’aperitivo alle sette.
Ma si sa, la savana è puttana* e non ti permette di pianificare nulla. Sarà per questo che là gli spritz tirano pochissimo.
O gli gnu, Gli gnu. Ditemi voi, che interesse possono rivestire degli animali che sono più brutti dei bisonti, più scemi delle antilopi, ma che soprattutto vivono spostandosi continuamente verso l’acqua, morendo a centinaia durante la migrazione. Cristo, ma se l’avete trovata restate là!
Giraffe mai.
Cioè, le vedi pure eh, ma in ruoli da comprimarie. Mai un documentario bello incentrato su di loro.
Perché secondo voi? Scarso interesse? Mancanza di fondi? Sindacato delle giraffe debole?
Io ho una mia teoria.
E c’entra uno gnu.

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*Detto popolare di Lambrate

Racconto di Natale 2012: testimoni d’un amore, n.43

Non era solo passione. Era mania, ostentazione anzi.

Massimiliano (a volte le omonimie) era uno di quelli che aveva bisogno di sfoggiare sempre l’ultimo “qualcosa”: telefonino, automobile, abito. E questa sua fissazione la proiettava anche in ambiti che con gli status symbol non c’entravano affatto. La corsa.
Non era appassionato di running per salute ma gli piaceva mostrare il suo fisico fasciato in tutti i modi possibili. Così aveva comprato tute aderenti, magliette a tessuto tecnologico, scarpette che manco Star Trek.
Per questo, quando fu ritrovato riverso su una panchina, con la lingua di fuori, stroncato da arresto cardiaco, il fatto che non indossasse quelle sue Mizuno Wave Creation (perché lui chiese al commesso “le scarpe più fighe per correre”), peraltro personalizzate con le sue iniziali, “M.Z.”, insomma,
l’essere trovato scalzo colpì molto, tanto da non far escludere, se non dopo l’autopsia, che a causare quel decesso non fossero state cause naturali.
La moglie, Adele, restò così improvvisamente sola, priva di un sostegno che comunque non fu mai davvero tale a livello di presenza, di capacità di donarsi, con lui sempre sotto i riflettori e il resto a far da spettatore plaudente.

Era sempre stata lui, la primadonna.

Quelle scarpe così tecnologiche erano adesso trofeo di un barbone, cui la vita aveva tolto tutto e che per un attimo si era trovato nel posto giusto al momento giusto. Il tempo per sfilarle a chi non ne aveva più bisogno. E fuggire via.

Ma cosa se ne fa un barbone di scarpette running, abituato a vivere nella sporcizia e per di più sotto Natale, quando il freddo ti morde i piedi e hai bisogno di ben altro per non congelare?
Così decise di scambiarle in mensa con un cartone di Tavernello ed un panettone del discount, con Andreas, l’ecuadoregno appena arrivato in cerca di fortuna.

Non parlava molto Andreas, nessuno sapeva nulla di lui. Scambiava cose con cose, questo solo.
E quando, per puro volere del caso, si ritrovò a passeggiare proprio nello stesso parco che per ultimo aveva visto quelle scarpe ai piedi di Massimiliano, da subito non capì perché quella donna lo fissasse tanto insistentemente. E perché proprio i suoi piedi.

– Chi ti ha dato queste scarpe?! Parla!
– Eh? Signora… io…
– CHI?!

Iniziarono a parlare, raccontarsi, spiegarsi.

Sembra una di quelle favole di Natale, ma è tutto vero. Andreas iniziò ad avere una storia con Adele. Cominciarono anche a progettare, a parlare di futuro.
Fino a che Andreas, un giorno, non fece più ritorno a casa.
Adele non seppe più nulla di lui: sparito completamente.

Fu una settimana di inferno per Adele: ancora una volta aveva perso il suo uomo, e stavolta senza nemmeno sapere più nulla del suo destino.

Non resse stavolta e provò a togliersi la vita nella sua vasca da bagno, proprio accanto alle scarpe, quelle scarpe, che lui aveva lasciato là in un angolo.

Quando Andreas, ad una settimana dalla sua scomparsa tornò, con le carte in mano per quella che doveva essere la sorpresa di Natale per il suo amore – il nulla osta, le carte del tribunale, tutti i permessi per il matrimonio – dopo essere volato nella sua terra ed essere tornato il prima possibile, crollò, ginocchia a terra, nel vedere il suo amore esanime nella vasca, che stringeva a sè proprio quelle scarpe, in un ultimo, disperato gesto d’amore.
Andreas però si accorse che non era finita. Adele respirava, seppur flebilmente. La sollevò e corse giù per le scale, e fino all’ospedale. E lei che teneva sempre strette al cuore quelle scarpe.

Sì, ci fu il lieto fine. Lei si salvò e quelle scarpe rimasero in quella casa a testimonianza della forza dell’amore, che tutto può e tutto supera.

Un simbolo, tanto inusuale per racchiudere sentimenti così grandi. Ma non è poi questo a rendere la storia tanto meravigliosa?

Chi non desidererebbe adesso guardare quelle scarpe, possederle anche?
Io non ho resistito e sono riuscito a venirne in possesso – non chiedetemi come. Per me erano troppo importanti.
E sì, è solo un caso che avessero le mie stesse iniziali – buffa la vita.
Ma adesso penso sia arrivato il momento di condividere anche con altre persone queste emozioni.

Novanta euro trattabili, praticamente nuove, no perditempo.

Sicurezza totale

Sistema di assistenza intelligente della frenata, avviso anticollisione, EBD, sistema di prevenzione di invasione corsia, dodici airbag, sistema di controllo dell’angolo cieco, fari allo xeno autoadattativi, gomme anti aquaplaning, controllo della stabilità, radar di bordo, controllo della trazione. E poi attaccare un rosario in plastica allo specchietto. Ti rendi conto? Pensi funzioni davvero? Anche in questi casi usa la testa: preferisci sempre la qualità. Non tutti sanno che quelli che si vendono, spesso, sono cinesi.

Sei sanissima!

“La maggior parte della bellezza di una donna va via con una secchiata d’acqua” (cit.).

Il trucco femminile è una sofisticata arma di seduzione, della quale poche donne fanno a meno. Ma vi siete mai chiesti perché il trucco aumenti l’attrattiva?
Perché evidenziare zone del corpo, modificarne i colori, alterarne la compattezza porta un maggior interesse e definiscono la persona come “più bella” di quanto non sia al naturale?

Cos’è poi la bellezza?

Non statemi a fare l’ipocrita nenia: “io preferisco la donna così com’è“. Allora spiegatemi perché per i servizi di copertina, per fotografie, spot, film non vediamo mai una come si fosse appena svegliata.
E’ ovvio che il trucco valorizzi, copra i difetti e renda una donna decisamente più attraente.

Per certi versi il discorso vale anche per gli  uomini, ovviamente con tutti i limiti del fatto che per un uomo “truccarsi” al massimo coincide col sistemare barba e capelli, concedersi abbronzatura e poche altre alterazioni fisiche, ma il concetto è assolutamente lo stesso, dunque nessun sessismo. È solo che il trucco, essendo pratica eminentemente femminile, ci aiuta a capire meglio il perché alterare il proprio aspetto trasmetta certe immagini mentali.

ROSSETTO: sto comunicandoti che le mie labbra sono ben irrorate, che c’è buon afflusso di sangue. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute.
RIMMEL e CONTORNO OCCHI: i miei occhi contrastano fortemente sul mio viso, sono in estrema evidenza ed anche la parte più chiara sembra ancora più tale. Questo trasmette una immagine di occhio sano e riposato e dunque di poco stress a livello psicofisico. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute.
FONDOTINTA: la mia pelle è uniforme. Non ci sono zone rovinate dunque non ho passato il mio tempo sotto agenti dannosi come Sole o intemperie. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute.
SMALTO: le mie estremità (dita delle mani e dei piedi) sono perfettamente funzionanti perché il sangue vi affluisce correttamente. Non ho zone congelate o atrofiche. Dunque non ho mai sofferto condizioni climatiche estreme. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute.
Aggiunta: per gli smalti si noti la tendenza al rosso/rosso bruno. Si avvalora il concetto di buon afflusso di sangue. Non si badi all’uso di colori come il bianco o il nero: fanno parte di altri corredi mentali che richiamano oggi idea di agio, di possibilità di vivere senza far uso eccessivo delle mani. Lo smalto mi informa che non faccio lavori pesanti. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute. Altri colori “estremi” come il verde, il fucsia, il blu seguono la stessa tendenza, con un richiamo visivo ancora più evidente. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute.
PRODOTTI PER I CAPELLI: i miei capelli sono sani, forti. Il tempo e le condizioni atmosferiche non li hanno sfibrati ed indeboliti. Questo significa che il mio corpo sta bene, che sono in salute.

In conclusione, si altera il proprio corpo per mandare segnali di salute. La bellezza non è altro che l’immagine di una persona che appare appunto sana e più questa idea passa, più si rafforza l’attrattività.
Una body builder crea abbastanza disagio in un uomo perché tutto sommato trasmette l’idea di persona atletica, ma non è quella la “salute” in senso stretto. Perché mi sta comunicando forza, e dunque potenziale combattimento, aggressività. Cioè si tratta di una persona che tendenzialmente si scontra con altri esseri, vive all’aperto e quindi il suo corpo è sottoposto a continui stress. La body builder non è in salute come la modella: questo il messaggio che il mio cervello elabora in modo a me inconscio. E comunque la modella è più figa.

Se tutto questo è vero, il trucco non è altro che un elaborato certificato medico, col quale mi attesti il tuo stato di sana e robusta costituzione e l’assenza di patologie invalidanti.

Quindi, care donne, se Max Factor non è un immunologo potete anche evitare di spendere con lui tutti quei cazzo di soldi.
A me basta che vi facciate un check up ogni tanto.

– Sei bellissima, sai?
– Grazie, guarda che transaminasi.
– Hai un corpo meraviglioso.
– E dovresti vedere le mie curve glicemiche.
– Ho voglia di fare l’amore con te.
– Anche io. Spero che il tuo tempo di protrombina sia come il mio.