Finché mi sono cacciato (L’Unità, io e il pene)

Alla fine sono andato via, chiuso. E (poco) prima che mi cacciassero.

Un po’ perché non mi è piaciuta la gestione di alcune dinamiche interne per me importanti, un po’ perché mi sono rimaste fortemente impresse certe richieste – sempre educatissime e cordialissime, nulla da eccepire al riguardo – circa la censura di alcune parole. Brutte parole. Tipo “cazzo” [pene]. Ecco, su un blog de l’Unità non si può scrivere “cazzo” [pene]. Non su L’Osservatore Romano eh: su L’Unità. E non è possibile neppure dare della troia [meretrice] alla propria sorella, ancorché troia [Dio quante ne fa]. Ancorché inesistente. Mi sono ritrovato a dover mettere delle pecette nere sulle parolacce: avrei trovato la cosa anche divertente, fossimo stati in un gruppo di inibiti lupetti scout.

Si tratta di scelte in linea con una filosofia editoriale del giornale che impone un certo contegno a tutti, a partire dai commentatori dei vari blog, per finire a chi scrive per puro piacere di farlo, del tutto gratuitamente da quasi due anni.

Ecco, forse è proprio questo il punto più dolente: “del tutto gratuitamente”. Sarà un po’ perché il mio tempo medio di permanenza in un luogo virtuale è di due anni appunto, sarà anche per il mio ostinarmi a pensare che chi fa qualcosa, alla lunga, per questa “cosa” debba essere retribuito, gratificato, ricompensato, leccato o non so cosa. Fatto sta che mi sono rotto il cazzo [pene]. Un servizio (perché tale lo considero) a titolo di puro volontariato deve trovare da qualche parte la sua ragion d’essere, le motivazioni perché possa proseguire. E non si parla del vil danaro.

Oddio, ma perché no poi? Pure quello. Anche simbolicamente: una cinquanta euro a titolo di rimborso usura tastiera, di gratificazione tipo paghetta al ragazzino, una busta con dentro un buono per il gelato, un redattore che ti stringe la mano e dentro ci tiene la banconota arrotolata come faceva la nonna.

Ma a questo punto comincio a guardarmi intorno e mi rendo conto di non essere solo. Cioè, non sono più solo io a rompermi il cazzo [pene] nello svolgere un “lavoro”, di qualunque genere esso sia, senza alcun tipo di ritorno.

Credo che non sia vero che la colpa di questa situazione economica stia solo nei padri, che hanno lasciato il deserto ai figli ma sia anche un po’ dei giovani stessi, che hanno abituato aziende e padroncini ad ogni tipo di bonario accomodamento, servizio extra, stage non retribuito, contratto mai rispettato, straordinario implicito, auto propria a disposizione, rimborsi eventuali, culo alla bisogna.

Parlavo con una ragazza tedesca. Mi diceva di essere andata via di casa a 19 anni, di aver trovato un lavoretto e che da là ne ha visti tanti. Pure di lavori. Quando le ho rappresentato la situazione italiana stentava a credermi, ma la cosa che più le faceva specie era il concetto di “lavoro non retribuito”. Ho visto l’orrore nei suoi occhi e non solo perché le fissavo insistentemente le tette [grandi, erano veramente grandi!].

Con la scusa del: “Intanto cominciamo, poi si vedrà” si dimentica che il “Poi si vedrà” semplicemente sarà a breve: “Soldi? Mai parlato di soldi: se non ti va bene la porta è quella”. E ti indicano una porta che sarai tu, uscendo, a dover anche riparare (il lavoratore non retribuito sa far tutto).

E sarai costretto a spostarti altrove, dove ti ripeteranno “Intanto cominciamo, poi si vedrà”, mentre nel tuo vecchio posto metteranno un altro sciagurato, abbindolato dall'”Intanto cominciamo, poi si vedrà”. Il miraggio del contatto/contratto lavorativo, del rendersi finalmente indipendenti da mamma’ ha portato la cultura del lavoro non retribuito a tempo pieno, dello svalutare qualunque opera, specie dell’ingegno, creando invece la sottocultura del ritenere non necessario ricompensare un contributo al fatturato, una presenza in azienda o anche una semplice collaborazione.

A volte si fa leva sulla “visibilità”, altro concetto tutto italiano. Per un creativo, disporre di una platea ampia è da ritenere già di per sè fonte di guadagno, per la visibilità. Dunque abbozza e coccolati i tuoi lettori. Alla lunga qualcosa tornerà.

Solo che io della visibilità non me ne faccio un cazzo [pene]. Non ne ho bisogno, non faccio l’attore per cui la visibilità mi porta a riempire i teatri, non vivo di qualcosa che nasce dai riflettori, se vogliamo escludere l’hobby di filmare i miei rapporti sessuali.

Ma anche là uso luci soffuse.

Altre volte, come in ambienti politicizzati, si gioca sullo spirito di corpo, sull’idea che si voglia naturalmente contribuire ad un progetto comune. Il compenso non solo non è contemplato ma addirittura pare essere fantascienza. E’ già un onore essere dentro. “E poi mancano le risorse”. Sempre.

Il punto è che io non sono così “brandizzato”: non ho quello spirito di corpo perché non sono schierato, tesserato, lottizzato, omogeneizzato, disidratato, pur avendo idee magari di quella sponda là. Dunque combatto volentieri le vostre battaglie, ma come farebbe una puttana [mia sorella] qualunque. Magari ti faccio fare qualche giro gratis, ma poi mi paghi, cazzo [pene]!

Per quanto mi riguarda, il mio rapporto con L’Unità non si è mai evoluto in modo tale da ritenerlo per me un peso creativo con scadenze, dunque amici e ciascuno per la propria strada. Penso però che questo sia anche un esempio di come spesso non si sappiano utilizzare risorse probabilmente utili per la propria causa, azienda, obiettivo. Col tempo ho scritto là sopra sempre meno, non ho mai visto valorizzate le mie cose e francamente la cosa mi ha dato un discreto fastidio, fottuto megalomane del cazzo [pene] come sono. Ma questo parte da un mio personalissimo punto di vista che vede il sottoscritto al centro creativo dell’universo intero e dunque potrei sbagliare.

Insomma, saluto L’Unità e mi rimetto sul mercato: so che per un po’ Sallusti [qualcun altro] non sarà disponibile. Beh, io ci sono e non penso di essere meno di Sallusti [qualcun altro].

Ma questo vale anche per il mio cazzo [cazzo].

Pugno, pugna e pugnetta

E’ da un anno e mezzo ormai e continuo a sorprendermi di quelli che commentano le mie cose satiriche su L’Unità in modo serioso… ma serioso…

A volte penso che il motivo per cui la sinistra prende da anni mazzate pure dai puffi (ogni riferimento è puramente casuale) sta proprio nell’ingessatura mentale, nel suo arroccarsi ciecamente sulle ideologie perdendo di vista non solo il piacere della leggerezza e del perculamento ma anche – ogni tanto eh, mica sempre – un sano fottersene delle cose.

Pugno stretto e lotta continua, sì… Hasta siempre comandante, sì.

Ma proprio siempre siempre? Domani dicono ci sarà il sole… pausina?

Ogni monastica enclave intellettuale alla lunga logora e si logora.

Una volta eri meglio

Prima ancora che andassero di moda gli RSS leggevo tutti i giorni certi blog: avevo i miei Preferiti e spulciavo a manella le pagine di mio interesse. Molti di quei blog ci sono ancora, altri hanno cambiato qualcosa, altri ancora sono spariti (paulthewineguy su tutti ed è stato un peccato – dicono).

Oggi ho ritrovato il mio vecchio file dei Preferiti di qualche anno fa*. E mi sono divertito a cercare di capire le dinamiche di abbandono di lettura di un blog. Perché – mi sono chiesto – ad un certo punto smetti di seguire un sito che fino a ieri rappresentava per te una tappa quotidiana fissa? E mi sono dato delle risposte.

A volte – credo – dipende da semplici coincidenze: si scopre un nuovo blog e ci si fissa su questo. Passano i giorni e se ne trovano altri e i Preferiti cominciano a scalare, spostando nel dimenticatoio i più vecchi.

Ma anche un semplice errore, una non voluta cancellazione del link per esempio può portare ad abbandonare quella lettura.

Oppure ancora ci si rompe semplicemente il cazzo di come scrive quel blogger. Questo capita soprattutto con quelli che hanno sempre lo stesso stile, quello che  anni prima ti faceva impazzire ma che ora ha semplicemente fatto l’acido. Voglio dire: scopare la tua ragazza, con la quale stai da quattro anni, è anche piacevole ma vuoi mettere (dentro) una new entry, che magari non è neppure meglio della tua ma ha l’enorme vantaggio di essere semplicemente “un’altra”? Cambiare è nella logica delle cose, un naturale anelito umano verso nuovi orizzonti che si schiudono, aprendo subitanei ed improbabili agganci di mediocre poetica.

Insomma, la diversità è un valore, va coltivata e tu non puoi farmi sempre lo stesso post, con lo stesso stile: so già i tuoi meccanismi, i tuoi tempi, ti conosco. Magari sei bravo eh, anzi: bravissimo. Come scrivi tu non scrive nessuno in quel modo quel tipo di cose… ma a maggior ragione: semplicemente basta. Se voglio rivivere dei deja vu mi guardo Sanremo. Anche i tuoi commentatori, che pendono dalle tua labbra e non attendono altro che il tuo ciclostilato scoreggino web per darti del “genio” o qualcosa del genere… ma non ti hanno tranciato lo scroto? La domanda che mi sorge allora è: il tuo è uno stile ben definito o più semplicemente è l’unico stile che puoi permetterti? Perché a questo punto mi sorge il dubbio che tu sia uno di quelli dotati-limitati, che se sei dirigente d’azienda di successo, a pranzo parli della tua azienda di successo, o se sei brillante ricercatore fisico-nucleare non hai mai sentito parlare di Pupo. Cantami “Su di noi”!, Adesso!

Su di noi ci avresti scommesso tu

su di noi mi vendi un sorriso tu

se lo vuoi cantare, sognare, sperare così.

Su di noi gli amici dicevano no,

vedrai,

è tutto sbagliato.

Uff… non la sai, lo sapevo.

Un altro dei motivi di abbandono della lettura di un blog però può essere non il radicamento su medesimi stili di scrittura ma semplicemente l’esaurimento della vena dell’autore. Tout court, ad un certo punto cominci a scrivere cose pallose, non sei più interessante come una volta e mi fai dire: “Cazzo, cosa t’è successo?“.

Devo dire che ci sono rimasto molto male con un blogger in particolare che leggevo sempre con grande divertimento: Chinaski. Suoi vecchi post li ritengo a tutt’oggi esempi di somma ironia. Chinaski era nella mia personale top ten ma ad un certo punto sono apparsi all’orizzonte altri blog e per un po’ l’ho perso di vista. Mi sono ritrovato oggi a tornare su quelle pagine e leggere l’ultimo post. Il mio sopracciglio destro si è inarcato, richiamando movenze ancelottiane. Ho scorso un po’ la pagina, alla ricerca di altri post e niente: sempre la stessa espressione. Forse col tempo si è perso dietro altre cose, cura meno il suo blog o semplicemente ha dei figli che gli tirano la giacca mentre scrive. Fatto sta che oggi lo trovo semplicemente noioso.

Su di noi nemmeno una nuvola

su di noi l’amore è una favola

su di noi se tu vuoi volare lontano dal mondo,

portati dal vento

non chiedermi dove si va.

Noi due respirando

lo stesso momento

per fare l’amore qua e là.

Cristo, ma non sentite che pathos?!

E subito mi è venuto da pensare a me, al fatto che questa mia obiezione – l’essere arrivato a noia – potrebbe validamente essere mossa anche alle mie, di cose. Presumo infatti che questo ragionamento valga un po’ per tutti – probabilmente in molti mi hanno lasciato per lo stesso motivo.

Allora mi sono fermato a riflettere e ho anche proceduto ad una analisi più approfondita dei miei scritti, confrontandoli con quelli più datati per cercare eventuali cali nella fluidità, nel potenziale interesse o divertimento in grado di suscitare. Una autocritica seria, il più possibile obiettiva e portata avanti col solo fine di fornire sempre un prodotto in grado di catturare l’attenzione del lettore.

E posso ora affermare con un certo grado di sicurezza che nonostante fisiologici alti e bassi e altrettanto naturali cambiamenti dell’impianto narrativo, chi ha abbandonato la lettura delle mie pagine è davvero un coglione che non ha capito un cazzo della vita e deve solo morire malissimo e si merita Lia Celi, Vergassola, Colorado Cafè e andate tutti affanculo, vi odio, vi odio!

Ma il mio giudizio – lo riconosco – potrebbe non essere completamente asettico.

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*Non è vero ma serviva per l’aggancio a questa narrazione.

 

L’immagine potrebbe non essere rappresentativa

Primo fotogramma di un porno scaricato da Emule. Lei fingerà.

– Ciao Franco, da quanto non ci vediamo?
– Da parecchio, visto che non ti conosco.
– Non essere sempre così disfattista, Franco.
– Non lo sarei, se magari non mi chiamassi Franco.
– Scusa, scusa… pensavo fosse il tuo nome.
– Ma in base a cosa?
– Bah, non so, fisionomia?
– Vuoi dire che assegni un nome alla gente sulla base della faccia che ha?
– Beh no, non proprio. Deve esserci comunque un inquadramento nel calendario. Altrimenti per me tu saresti Trompezio Bulgaro Decimonono. Ma sul calendario quello che più si avvicina a questo nome è Franco.
– Senti, fatti curare, devo andare.
– Era voluta?
– Cosa?
– La rima.
– Che rima? Sei completamente pazzo.
– Ti piace la mia nuova ragazza?
– Quello è un comodino.
– Non saltiamo subito a conclusioni adesso.
– Stai andando in giro con un comodino sulle spalle, e questo già la dice lunga.
– Ci sono affezionato. E poi non mi pareva il caso di lasciarlo solo in casa.
– Cosa vuoi che accada ad un comodino?
– Boh, io so di strane cose che accadono ai comò: civette, dottori, rapporti sessuali… cosa ne vuoi sapere se queste cose non si trasmettano pure ai comodini.
– Oddiosanto! Mi vuoi lasciare in pace?
– Chiedo scusa. E’ che mi sento solo.
– Non è una buona ragione per andare in giro ad importunare la gente.
– E qual è una buona ragione per farlo?
– Nessuna!
– Allora era un trabochetto!
– Ma quale trabocchetto!
– Possiamo rivederci domani?
– Ma neanche per sogno!
– Va bene. Ciao Daniele.
– Uh… cosa ne sai che mi chiamo Daniele?
– E’ che dalla fisionomia…
– Ma non era “Franco” dalla fisionomia?
– Allora lo vedi che lo sai anche tu!

Vieni qua figliolo, ti racconto come si divertiva nonno…

Ho letto un articolo su Repubblica:

In sintesi la cosa è nata tra i nerd della Silicon Valley: questi ragazzi si inventano giochi tipo il reverse shoplifting, nei quali piuttosto che rubare inseriscono, senza farsi vedere, un prodotto in un negozio che il titolare dell’esercizio può rivendere, oppure costruiscono segretamente giochi per bambini, o ancora si sparano con sofficissimi proiettili di gomma piuma.
Sull’articolo si parla di “bande di giovani alla ricerca in un modo originale di creare comunità in un epoca in cui proprio i mezzi digitali rischiano di isolarli dal contatto umano diretto“.

Trovo il tutto socio-antropologicamente rilevante: in un’epoca nella quale si rischia l’autoemarginazione da social media, il ritorno ad ancestrali strutture giovanilistico-tribali potrebbe essere salutare per chi si cimenta in queste forme ludiche di contatto umano.

Ma scopare?

Il Puttanariato

 

– Rimpasto? Commissariamento? Governo d’emergenza? Un cazzo, signori. Un emerito cazzo.

Così si presentò sul palco, sotto una pioggia battente che manco il Borneo, il nuovo segretario del primo partito di sinistra, Adolfo Bonomelli, eletto a sorpresa nel momento più delicato della storia del Paese, dopo delle primarie vinte grazie ad un tamtam su Internet senza eguali.

– Non basta dire “ne abbiamo abbastanza”. A casa ce lo mandiamo davvero, e a calci in culo! Oggi chiudiamo l’era del puttanariato!

“Puttanariato”. Fu questa la parola che riecheggiò per i mesi a seguire su tutti i media. La coniò il Bonomelli, in un pomeriggio come tanti altri, diverso da tutti gli altri.

Era un omone, il Bonomelli, e tutt’altro che rasserenante, a dispetto del suo cognome. Non si sapeva niente di lui: che lavoro facesse, di che origini fosse. Niente. Un mistero che si autoalimentava.
Si stava uscendo dal periodo più nero della Repubblica: il “puttanariato”, nato sotto l’ultimo Governo di destra, aveva talmente nauseato la parte sana del Paese che anche quella malata non poteva più ignorare la questione.
Vedere la propria figlia sovrappeso scavalcata nel concorso al Ministero degli Esteri, dalla troietta figa di turno, per soli meriti “orali”, fece ribollire il sangue ad Antonio Coviello, operaio e padre, che accoltellò il Ministro nel solito bar dove si fermava per il cappuccio – SUV sulle strisce.
Quando fu arrestato, la gente prese le sue parti, ne fece un vessillo, l’incarnazione dell’italico Braveheart, anche se di Sora.
E via appelli, sottoscrizioni, come mille altre volte. Ma stavolta si andò oltre. Qualcuno licenziò mignotte assunte grazie al loro dare il culo a chi di dovere. Anche con ragioni pretestuose come “manifesta incompetenza” o “inadeguatezza al ruolo”. Ed alcune puttane tornarono alle loro strade, case. E la loro immagine tornò ad essere quella che era prima dell’era delle veline: donne con problemi, oppure disperate disposte a tutto. Di certo non più un esempio da seguire se volevi avere successo nella vita.

Su quest’onda emotiva ci fu l’elezione a Segretario di questo sconosciuto, che parlava duro come un leghista primo stampo, ma portava avanti i sogni della sinistra: equità, riduzione dei privilegi, assistenza per chi ne avesse davvero bisogno e meritocrazia in ogni settore, pubblico e privato.

– Mi chiedono in molti chi sia io, come sia venuto fuori dal nulla. Vi rispondo qui, ora. Sono una persona qualunque, con un futuro scippato da un incantatore di imbecilli. Ho iniziato a darmi da fare quando chiesi a mia figlia, di sei anni, cosa volesse fare da grande. Mi rispose “la velina”.
Certo, direte voi, a sei anni si sogna questo, no? Ci sta. Ai miei tempi rispondevano “la ballerina”. Non è stato questo a farmi male, ma la risposta datale da mia moglie, dopo aver visto la mia faccia comunque perplessa: “brava, fai bene: è così che puoi diventare qualcuno in questo Paese”. Sapete cosa ho fatto? Cacciato a calci in culo quella donna. E insegnato a mia figlia cosa significasse lavoro, sacrificio, costruzione, abnegazione. Soddisfazione per se stessi.

Fu così che la gente imparò qualcosa in più di Adolfo Bonomelli.

– A puttane potete andarci voialtri. Voi che non siete ricattabili. Non chi ricopre un ruolo istituzionale. Non chi poi può essere preso per le palle e dover favorire questa o quella troia affinché non sputino la merda che hanno ingoiato. Chi guida un Paese non può! Non può! Non si sceglie di fare il Presidente del Consiglio. Si ha una vocazione o non la si ha. E’ come per il prete. Si nasce prete. E poi lo si comincia a fare. Se nasci guida di un Paese prima o poi ti ritroverai davvero a condurlo per mano. E saprai da te che non si può. Non si possono tante cose. E non se ne sente neppure il bisogno. Dì addio alla tua vita, sacrifica quel che sei per un bene che riconosci più grande di te e più importante della tua quotidianità. Se non senti questo, se entri in politica per fare un “mestiere” non sei degno di guidare nessuno. Si torni alla politica come arte di amministrare per il bene di tutti. Non si entra in politica per riempirsi il portafogli! Non si entra in politica per pararsi il culo dalla Giustizia! Non si entra in politica per farsi succhiare il cazzo!

Nessun leader di sinistra aveva mai parlato in quel modo. Talmente condivisibile da ripulire ogni volgarità con la forza della passione.

Il faccione divenne sempre più rigido. Pareva tagliato nel legno. Le mani accompagnavano quelle parole come un direttore d’orchestra i suoi musicisti.
Era uno spettacolo.
Raccolse le ovazioni di una folla che si raccoglieva sempre più numerosa sotto quel diluvio. Tanti misero da parte gli ombrelli per spellarsi le mani di fronte ad un uomo atteso da troppo tempo.
Uno spettacolo, sì.

– Ora vi dico io cosa fare, mi prendo la responsabilità. Fermate tutto. Qualunque sia la vostra attività fermatevi. Non andate al lavoro. Non aprite negozi. Non fate un cazzo. Per ogni svolta epocale c’è un prezzo da pagare. E siamo in una guerra civile, signori. Prendiamone atto. Scendiamo in piazza, con la bava alla bocca, con le nostre pezze al culo. Assediamoli, staniamoli. Un golpe, un golpe civile. Non passeggeranno più per via della Scrofa coi loro grassi sigari e le loro puttane al seguito. Calci in culo, destra, sinistra. A chiunque vi abbia scippato il futuro, vostro, dei vostri figli laureati con contratti di tre mesi nei call center. Non hanno solo distrutto un Paese. Lo hanno fatto sfoggiando sorrisi prefabbricati e puttane preoleate.
In strada, ora!
Oggi si chiude il puttanariato!

Un boato accolse quest’ultimo grido, prima che Adolfo Bonomelli venisse portato via in trionfo.

Quello stesso giorno – le coincidenze – il premier fu ritrovato senza vita sul suo letto. Infarto. Anche se ancora oggi si dice fosse davanti la tv, a guardare quell’invasato.

Nudo, rannicchiato sul letto in una estrema smorfia a congelare il dolore.

E – l’avreste mai detto? – neppure una puttana a piangerlo.

 

Mi ricordo ci provaste anche con il curling

Ma non ha un po’ triturato la minchia anche a voi ‘sta modaiola passione per il rugby?

Italia battuta dai grandissimi australiani per 32 a 6. Ma il primo tempo si era chiuso sul pari” .
Ma“?
Cos’è quell’avversativa?
Trentadue a sei. Dico: TRENTADUE A SEI.
Facciamo cacare o no?

L’orgoglio italiano, la grinta dei nostri ragazzi che nonostante tutto...”.
Nonostante tutto ‘sta ceppa.
TRENTADUE A SEI.

Ma cosa, eravate una dozzina in meno in campo? Avete fatto la pausa caffè? Ci siete andati o no a giocare?

Dico io, ci sta pure la sconfitta, ma non menate il cazzo con la storia dell’orgoglio e dell’aver tenuto testa a dei mostri.
Se sono di un’altra categoria non partecipate. Lottate al vostro livello. Scegliete San Marino, Cipro, Malta. Lo dico per voi, figuriamoci a me cosa interessa sapere che un gruppo di sconosciuti energumeni con denti rotti e cicatrici si menano a migliaia di km da casa mia. Se fossi interessato a queste robe metterei una webcam in qualche ospizio.

Ma poi: ma chi se ne fotte del rugby? Su. Siamo seri. Al massimo i rugbisty. Gente sottratta ad un più onesto spaccio. Gente che non vorresti mai incontrare in un vicolo buio. Gente che non è sicuramente il tuo capufficio. A meno che il tuo ufficio non sia uno spogliatoio.

E questi ora fanno pubblicità. Mi vendono Sky, abbonamenti internet, scarpe.
Quali scarpe puoi mai indossare, di mio gusto e fattura, tu che sembri un identikit?

Non capisci. Il rugby è uno sport nobile“.
Ma certo. Ce lo vedo, Sir Richardson, sorseggiare un Twinings alle 17 mentre si rivolge a Lord Chesterfield:
– Mio cavo amico, vitieni che in caso di mischia dovvemmo appvofittave della nostva supeviovità dialettica e demovalizzave gli avvevsavi?
– Oh buon Dio, Chavles, non mi pave una soluzione elegante.
– Hai vagione. Pasticcini?

Mi avete scassato il cazzo per anni con Luna Rossa, Mascalzone Latino e altri nomignoli degni di una canzone di Dean Martin. Cercando di farmi innamorare di termini incompresibili come bolina, spinnaker e Cino Ricci.
Non ce l’avete fatta.
Non riuscirete manco stavolta.

Trentadue a sei, Cristo!

 

 

Finché non mi cacciano (39)

Il Papa scrive una lettera aperta all’arcivescovo di New York, Timothy Dolan: “L’11 settembre rappresenta una tragedia aggravata dalla pretesa degli attentatori di agire in nome di Dio“. Ed ha ragione: è giusto rivendicare l’esclusiva di massacri di massa quando dalla tua parte hai guerre sante, crociate, inquisizione e invito a non usare alcun tipo di profilassi contro l’AIDS nei paesi del Terzo Mondo.

[Su L’Unità, qui]

Pronto, casa La Terza?

Per qualche ora mi sono improvvisato telefonista. Ho chiamato centinaia di persone per proporre un certo corso di formazione.
Ho scoperto un mondo. Un mondo di pensionati rinchiusi in casa e del tutto andati con la testa. Un mondo di casalinghe malfidate, sospettose, pronte poi ad aprirsi una volta trovata la chiave comunicativa giusta. Un mondo di bimbi che rispondono al telefono e gestiscono in autonomia una casa.

– Pronto casa Menna?
– Sì, chi parla?
– Sono blablabla, cercavo Daniele.
– Daniele chi?
– Beh, Daniele… Menna?
– Ah sì, un attimo.
– ???

– Pronto casa De Patre? Cercavo Renato.
– Non c’è.
– Quando lo posso trovare?
– Non lo so. Arrivederci. [CLICK].
– ???

– Pronto casa Di Marco? C’è Flavio?
– Lei chi è?
– Sono blablabla, della blablabla.
– Cosa vuole da Flavio?
– Volevo proporgli un corso di formazione, completamente finanziato, che…
– Che finanziato?
– Eh?
– Si paga?
– No signora, come detto è completamente finanziato da blablabla e…
– Chi parla?
– ???
– Chi è lei?
– Quello di prima signora, mi sono presentato 12 secondi fa.
– Cosa vuole da Roberto?
– No, da Flavio. E non voglio niente. Parlavamo del corso…
– Che corso?
– Sempre quello di cui sopra. Non c’è in casa qualcun altro, signora?
– C’è Flavio.
– E io lui cercavo!
– Che vuole da Flavio?
– Niente, dargli la mia solidarietà.
– Si paga?
– …

– Pronto casa Lorena?
– Eeeeehhh! Ciao! [bambino treenne]
– Ciao. C’è la mamma?
– La mamma dorme!
– Chi altro c’è in casa?
– Non lo so.
– Mi puoi passare qualcuno?
– Sì.
– Grazie.
[rumore di telefono poggiato. Passi di bambino. Silenzio. 3 minuti. Si sente il bimbo cantare “Il coccodrillo come fa”. Chiudo].

– Pronto casa Luciani?
– Sì ma non compriamo niente.
– Nè io vendo niente.
– No perché pure ieri ci avete chiamato.
– “Avete” chi?
– Voi del telefono.
– Signora, penso si sbagli. Io sono della blablabla e volevo parlare con Rita per un corso di formazione. Gratuito.
– Non si paga niente niente?
– Niente niente.
– E voi che ci guadagnate?
– Sono corsi finanziati, signora.
– Allora alla fine si paga qualcosa.
– No signora, l’allievo non deve pagare niente.
– E chi paga?
– In questo caso paga l’Ente che ci ha commissionato il corso. E’ possibile parlare con Rita?
– Rita non c’è.
– Quando la posso trovare?
– Rita si è sposata, non abita qua. Può dire a me.
– Ma a lei ho già detto. Avevo bisogno di parlare con Rita.
– Per quanto riguarda cosa?
– Il corso di formazione!
– Ah no guardi, non voglio sapere niente. Di queste cose se ne occupa mio marito ma ora lavora.
– Va bene signora, scusi se le ho fatto perdere tempo.
– Ma prego! Che mi richiamate pure domani?
– Non penso, signora.
– No perché domani esco presto.
– Bene signora.
– Però a mezzogiorno ci sono eh.
– ???

– Pronto casa Spacone?
– Sì.
– Dovete morire malissimo [CLICK]

Finché non mi cacciano (32)

Ci prometti fiumi d’oro? Ti diamo fiducia perché siamo coglioni e crediamo nel Campo dei Miracoli.
Poi ci ritroviamo con le pezze al culo? A Piazzale Loreto stanno già lucidando in terra.

[Continuo su L’Unità, qui]