Finché mi sono cacciato (L’Unità, io e il pene)

Alla fine sono andato via, chiuso. E (poco) prima che mi cacciassero.

Un po’ perché non mi è piaciuta la gestione di alcune dinamiche interne per me importanti, un po’ perché mi sono rimaste fortemente impresse certe richieste – sempre educatissime e cordialissime, nulla da eccepire al riguardo – circa la censura di alcune parole. Brutte parole. Tipo “cazzo” [pene]. Ecco, su un blog de l’Unità non si può scrivere “cazzo” [pene]. Non su L’Osservatore Romano eh: su L’Unità. E non è possibile neppure dare della troia [meretrice] alla propria sorella, ancorché troia [Dio quante ne fa]. Ancorché inesistente. Mi sono ritrovato a dover mettere delle pecette nere sulle parolacce: avrei trovato la cosa anche divertente, fossimo stati in un gruppo di inibiti lupetti scout.

Si tratta di scelte in linea con una filosofia editoriale del giornale che impone un certo contegno a tutti, a partire dai commentatori dei vari blog, per finire a chi scrive per puro piacere di farlo, del tutto gratuitamente da quasi due anni.

Ecco, forse è proprio questo il punto più dolente: “del tutto gratuitamente”. Sarà un po’ perché il mio tempo medio di permanenza in un luogo virtuale è di due anni appunto, sarà anche per il mio ostinarmi a pensare che chi fa qualcosa, alla lunga, per questa “cosa” debba essere retribuito, gratificato, ricompensato, leccato o non so cosa. Fatto sta che mi sono rotto il cazzo [pene]. Un servizio (perché tale lo considero) a titolo di puro volontariato deve trovare da qualche parte la sua ragion d’essere, le motivazioni perché possa proseguire. E non si parla del vil danaro.

Oddio, ma perché no poi? Pure quello. Anche simbolicamente: una cinquanta euro a titolo di rimborso usura tastiera, di gratificazione tipo paghetta al ragazzino, una busta con dentro un buono per il gelato, un redattore che ti stringe la mano e dentro ci tiene la banconota arrotolata come faceva la nonna.

Ma a questo punto comincio a guardarmi intorno e mi rendo conto di non essere solo. Cioè, non sono più solo io a rompermi il cazzo [pene] nello svolgere un “lavoro”, di qualunque genere esso sia, senza alcun tipo di ritorno.

Credo che non sia vero che la colpa di questa situazione economica stia solo nei padri, che hanno lasciato il deserto ai figli ma sia anche un po’ dei giovani stessi, che hanno abituato aziende e padroncini ad ogni tipo di bonario accomodamento, servizio extra, stage non retribuito, contratto mai rispettato, straordinario implicito, auto propria a disposizione, rimborsi eventuali, culo alla bisogna.

Parlavo con una ragazza tedesca. Mi diceva di essere andata via di casa a 19 anni, di aver trovato un lavoretto e che da là ne ha visti tanti. Pure di lavori. Quando le ho rappresentato la situazione italiana stentava a credermi, ma la cosa che più le faceva specie era il concetto di “lavoro non retribuito”. Ho visto l’orrore nei suoi occhi e non solo perché le fissavo insistentemente le tette [grandi, erano veramente grandi!].

Con la scusa del: “Intanto cominciamo, poi si vedrà” si dimentica che il “Poi si vedrà” semplicemente sarà a breve: “Soldi? Mai parlato di soldi: se non ti va bene la porta è quella”. E ti indicano una porta che sarai tu, uscendo, a dover anche riparare (il lavoratore non retribuito sa far tutto).

E sarai costretto a spostarti altrove, dove ti ripeteranno “Intanto cominciamo, poi si vedrà”, mentre nel tuo vecchio posto metteranno un altro sciagurato, abbindolato dall'”Intanto cominciamo, poi si vedrà”. Il miraggio del contatto/contratto lavorativo, del rendersi finalmente indipendenti da mamma’ ha portato la cultura del lavoro non retribuito a tempo pieno, dello svalutare qualunque opera, specie dell’ingegno, creando invece la sottocultura del ritenere non necessario ricompensare un contributo al fatturato, una presenza in azienda o anche una semplice collaborazione.

A volte si fa leva sulla “visibilità”, altro concetto tutto italiano. Per un creativo, disporre di una platea ampia è da ritenere già di per sè fonte di guadagno, per la visibilità. Dunque abbozza e coccolati i tuoi lettori. Alla lunga qualcosa tornerà.

Solo che io della visibilità non me ne faccio un cazzo [pene]. Non ne ho bisogno, non faccio l’attore per cui la visibilità mi porta a riempire i teatri, non vivo di qualcosa che nasce dai riflettori, se vogliamo escludere l’hobby di filmare i miei rapporti sessuali.

Ma anche là uso luci soffuse.

Altre volte, come in ambienti politicizzati, si gioca sullo spirito di corpo, sull’idea che si voglia naturalmente contribuire ad un progetto comune. Il compenso non solo non è contemplato ma addirittura pare essere fantascienza. E’ già un onore essere dentro. “E poi mancano le risorse”. Sempre.

Il punto è che io non sono così “brandizzato”: non ho quello spirito di corpo perché non sono schierato, tesserato, lottizzato, omogeneizzato, disidratato, pur avendo idee magari di quella sponda là. Dunque combatto volentieri le vostre battaglie, ma come farebbe una puttana [mia sorella] qualunque. Magari ti faccio fare qualche giro gratis, ma poi mi paghi, cazzo [pene]!

Per quanto mi riguarda, il mio rapporto con L’Unità non si è mai evoluto in modo tale da ritenerlo per me un peso creativo con scadenze, dunque amici e ciascuno per la propria strada. Penso però che questo sia anche un esempio di come spesso non si sappiano utilizzare risorse probabilmente utili per la propria causa, azienda, obiettivo. Col tempo ho scritto là sopra sempre meno, non ho mai visto valorizzate le mie cose e francamente la cosa mi ha dato un discreto fastidio, fottuto megalomane del cazzo [pene] come sono. Ma questo parte da un mio personalissimo punto di vista che vede il sottoscritto al centro creativo dell’universo intero e dunque potrei sbagliare.

Insomma, saluto L’Unità e mi rimetto sul mercato: so che per un po’ Sallusti [qualcun altro] non sarà disponibile. Beh, io ci sono e non penso di essere meno di Sallusti [qualcun altro].

Ma questo vale anche per il mio cazzo [cazzo].