Perché l’Abruzzo non sarà mai la Romagna

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L’Abruzzo è una terra nota al di fuori dei propri confini per poche cose: il Parco Nazionale, il terremoto, le pecore (confondendosi per questo con la confinante Sardegna*), gli arrosticini (che poi sono pecore morte, tagliate in pezzi e messe su uno stecco**).
* Se non ci noti nulla di che allora confermi che dell’Abruzzo non sai davvero un cazzo.
** Se sei abruzzese troverai in questa descrizione un errore: il vero arrosticino è fatto di castrato.

Chi è particolarmente acculturato riporta a questa terra anche nomi illustri come D’Annunzio, Flaiano, Rocco Siffredi.
Per il resto l’Abruzzo è terra turisticamente sconosciuta.
E questo non per motivi di carenza di risorse paesaggistiche o culturali, ma per un problema che affligge questa terra da sempre: gli abruzzesi.

Gli abruzzesi non sono diversi dai campani o dai trevigiani, almeno dal punto di vista del DNA. Sono però cresciuti in un ambiente particolare, l’Abruzzo appunto, che ha conferito loro caratteristiche del tutto peculiari dal punto di vista dei rapporti umani.
Sono estremamente cortesi con gli ospiti (il detto locale recita infatti: “Abruzzo forte e gentile”) ma la cosa ha tempi ben precisi e modalità rigorose: superati alcuni orari, la persona deve sparire. E farlo in fretta. Altrimenti l’abruzzese si trasforma in puro orso marsicano, divorando la povera vittima.

Sono stato alla “Settimana Mozartiana” di Chieti, una bella manifestazione con “spettacoli sinfonici e cameristici, concerti jazz, recital, spettacoli di prosa, performance di danza e galà di lirica“. Tanta gente gira per le strade di Chieti in abito d’epoca. Una cosa veramente carina. Il tutto si svolge dalle 21.00 a mezzanotte, per una intera settimana. Ed è questo il punto: l’orario è davvero quello. Voglio dire: avete presente i risponditori automatici che ti dicono di essere attivi “Dalle 13.00 alle 18.30”? Se chiamate alle 18.31 non rispondono più. Del resto c’è un sistema computerizzato che segue quell’orario pedissequamente. Ecco, L’abruzzese è così. Un fiume di persone per le strade di Chieti, concertini, bancarelle, famiglie venute da fuori.

Ore 23.59: tutto è incredibilmente vivo, affollato anche: le strade sono letteralmente invase.

Ore 00.00: coprifuoco. Le orchestrine smettono. Le bancarelle chiudono. Gli esercizi commerciali abbassano le serrande. Tutto in un sincronismo talmente efficiente da far pensare di essere in Svizzera. Se non fosse per il micidiale dialetto abruzzese.

Il turista non locale, quello abituato a mete normali come qualunque altra che non sia l’Abruzzo, viene colto alla sprovvista. Qualcuno pensa ci sia un bombardamento imminente. Altri sospettano di stare su una candid camera. Altri ancora abbracciano i familiari, convinti sia in corso un altro terremoto.
Per fortuna sono ancora i locali a spiegare loro che non c’è nulla di strano in tutto questo, che semplicemente l’orario è quello e Chieti deve immediatamente tornare alla sua condizione naturale, che è quella di morte cerebrale.
Appostate dietro le finestre, alle 23.59, migliaia di vecchie col telefono in mano, pronte a chiamare i vigili al minimo accenno di divertimento fuori orario.

Questo è l’Abruzzo, la mia terra. Non se ne esce. Laddove altrove inizia il divertimento, la vita, in Abruzzo si chiude.

Puoi tentare di cambiare le cose, allestire mostre, eventi, peep show. Non ci sono cazzi: ad una certa ora ti fanno chiudere, perché sennò rompi i coglioni.

L’Abruzzo è uno stato mentale.