Mi casa es mi casa

Oggi ho incontrato un amico che vive a Roma. Ogni tanto torna e mi scrocca un caffè. Dice che è stato qualche giorno a Copenaghen e che laggiù tutto è molto costoso e molto ordinato. L’ha confrontata con Roma e dice che c’è un abisso, quanto a cura del pubblico, pulizia, ordine. Dice che le strade sono un biliardo, mentre a Roma ci sono buche che ormai assomigliano al Monte Fato di Mordor.

Ecco, perché questo è normale? Perché accettiamo di essere un passo indietro quanto a civiltà? Cioè, perché in fondo non solo non ci pesa, ma se ci pensate ci piace essere visti come allegrotti, folkloristici, arruffoni?
Ecco, se ci chiedessero: “Come vorresti essere percepito all’estero, preciso, puntuale, organizzato e magari un po’ fanatico come un giapponese oppure estroso, furbo, caciarone e casinista?” non ci sarebbe storia.

Perché? Cioè, perché ci vantiamo di una storia millenaria di cultura, scienza e organizzazione e adesso siamo esattamente l’opposto? Siamo come quei popoli che ai tempi dei romani conquistavamo per portare civiltà nelle parti remote dell’impero.

Siamo noi, adesso, i barbari d’Europa.

Capisco che ogni civiltà abbia i suoi alti e bassi (guardiamo alla Grecia, tanto per dirne una), ma la domanda è: perché ci sta bene?
Io ho una mia idea: perché siamo un mischiume di popoli, contrade, città, feudi, reami, case, vicoli e palazzi, perché lei ama i colori, raccogliamo tutti i fiori…
Insomma, non siamo mai davvero diventati unità.
E dato che non ci riconosciamo come popolo unico, ciascuno pensa a se stesso, al proprio orticello, fregandosene del bene pubblico.

Questa forma mentis ormai è nel nostro DNA e dunque abbiamo sviluppato furbizia ed egoismo in luogo di cooperazione e interesse comune.
È solo una teoria, per carità, ma ne sono abbastanza convinto.
Dove c’è identità c’è azione comune. C’è organizzazione. C’è finalizzazione a obiettivi.
E se manca identità può essere il bisogno a spingere per una maggior organizzazione e azione comune.
Qua da noi manca anche il bisogno, perché tutto sommato non siamo il Venezuela. Ancora.

Cosa possiamo fare?
Molto, molto semplice: nulla, perché non c’è percezione del problema, anzi: c’è orgoglio, appunto, di essere così.
Guardate il fiorire di bandierine italiane nei profili social. Pensate sia perché ci si riconosce come popolo unico? Tutto l’opposto. Mettono le bandierine per distinguersi dagli “altri”, da quelli che non sono della loro tribù. Tribù politica, intendo.

Ennesima rivendicazione di divisione.

Non sono mai stato orgoglioso di essere italiano, ma proprio come non sono orgoglioso di essere alto, di avere gli occhi verdi, di essere oggettivamente un essere amabile e meraviglioso: non ho alcun merito in queste cose.
Però posso al contrario vergognarmi, quando arrivano amici dagli Stati Uniti e mi chiedono: “Why do drivers not stop when pedestrians cross on pedestrian crossings?”.
E mi rendo conto del problema quando tutto ciò che mi viene da rispondere è: “Because we are italians”.

Eduardo, l’italianità e altre cose che avrebbero tritato la minchia

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Tiriamo le somme di questa storiaccia meravigliosamente italica.

Hanno sparato a un tifoso napoletano, tale Ciro Esposito, di Scampia, che si faceva i cazzi suoi e si è trovato in mezzo a ‘sto casino. Ma non mi interessa del perché la pistolettata. Fermatevi su “Ciro Esposito”. È obbligatorio che un padre di famiglia, che di cognome fa “Esposito”, debba NECESSARIAMENTE” chiamare suo figlio “Antonio” o “Ciro” o poche altre varianti? No, non è una cosa marginale. Hanno analizzato la storia di questa partita in tutti i modi, concedetemi questo. Trovate già gradevole questo luogocomunismo tutto anema e core? A me fa tristezza. Tenete presente che non faccio testo: a me fa tristezza tutta l’allegrissima musica latino-americana e trovo deprimenti la maggior parte delle cose che passano in tv sotto la voce “comicità”.
Torno al fatto.
Sembra che a sparare a tale “Ciro” sia stato un tale, detto “Gastone”. Sì, “detto Gastone”.
Già questo giro di nomi-cliché e pseudonimi basterebbe per capire che non siamo in Danimarca.
“Detto Gastone”. Ma da chi? E perché? Perché i nomignoli?
Ma non è già questa una roba da bande di quartiere? Una cosa da favelas sudamericane?
Fermi.
A un certo punto, gente che urla allo stadio si ritrova con la possibilità che la partita venga sospesa, perché uno potrebbe morire. La logica è: se muore non si gioca.
Perché? Dov’è il nesso causale tra la partita e la morte? Quale il limite? E se resta paralizzato? Si gioca solo un tempo? Una ferita al polpaccio e si usa un pallone un po’ sgonfio?
La domanda base, di tutta questa storia è sempre quella: “perché?”.
Insomma, allo stadio, questa massa di persone comincia a bestemmiare perché non può forse vedere la partita e ormai aveva comprato la bomba carta e insomma pareva brutto sprecarla.
Perché la partita non si gioca? Perché qualcuno la sta bloccando. Chi? Le autorità (trovo buffissimo il termine “autorità” applicato a un gioco di pallone), per il motivo sopra detto, vale a dire nessun motivo: non vogliono che il giorno dopo i giornali scrivano: “Vergogna! Si è giocata la partita anche col morto caldo!”. Perché i giornali avrebbero scritto queste cazzate ipocrite, si sa. E infatti Saviano se l’è presa con Pietro Grasso: “Il presidente del Senato Pietro Grasso che consegnava le medaglie ha suggellato il senso della serata. Una sparatoria, feriti, bombe carta su calciatori e forze dell’ordine. E le istituzioni consegnano medaglie“. Quando a me fa senso il concetto stesso della “medaglia” consegnata per aver tirato calci a un pallone, ma ancor più, che politici siano là a presenziare a una roba ludica, conferendole un senso superiore che è esso stesso fonte poi di tutto questo carrozzone che muove danaro, gente e camorre.

Ma attenzione: non sono solo le autorità a sospendere la partita. C’è anche da ascoltare le tifoserie.
Le tifoserie.
Le tifoserie come organizzazione riconosciuta.
Le tifoserie come organizzazione riconosciuta e avente voce in capitolo.

– Che lavoro fai?
– Sono capo dei tifosi della Solbiatese.
– E che fai?
– Organizzo le trasferte, gestisco gli striscioni, avvio i canti allo stadio, metto il passamontagna in caso di lacrimogeni, gioco alla SNAI delle combinate che se mi riescono mi metto in tasca 124 euro, gonfio le banane salvagente, urlo tantissimo.

Piccolo inciso: ma perché urlate? E perché a nessuno fa specie che la gente urli allo stadio? Se accadesse in qualunque altro luogo saremmo terrorizzati. Immaginate in un negozio, un energumeno che alla cassiera dicesse:
“OLLELLE, OLLALLA’, FAMMELA VEDE’, FAMMELA TOCCA’!”. Sì, so che qualcuno di voi lo fa già, ma ci avete mai tirato su qualcosa? Qualcosa vicino a un essere umano guardabile, dico.

Immaginate di chiamare un idraulico. Arriva uno. Voi dovete uscire e resta vostra moglie in casa. Questo è di poche parole, esci, lo saluti. Poi vi ricordate, mentre siete già al lavoro, di averlo visto da qualche parte… ALLO STADIO! Era quello che urlava al portiere avversario di ciucciare la banana, era quello che smadonnava contro l’arbitro, minacciandolo di morti orribili, era quello già pregiudicato e noto alle autorità per vari reati e sospetto di affiliazioni camorristiche. Era quello arrampicato sulle transenne con la maglietta: “Speziale libero”. Era quello che si fa conoscere come “Genny ‘a carogna”.
Ora è in casa vostra.
Fermi.
A chiosa di tutta questa italianità, Saviano che sguazza in questo lordume camorristico – e giustamente stavolta – snocciolando date e dati, precedenti e nomi, preparandoci all’ennesimo best seller nel quale ci dirà che c’è la Camorra e che lui ha la scorta.
Il problema non è la Camorra, Saviano. Il problema è l’italianità, l’italianità e l’italianità. E trovare “normale”, se non fonte di provincialissimo orgoglio, questa fottuta italianità. Il trovare “normale” che un napoletano si debba chiamare “Ciro” se di cognome fa “Esposito”. Un marchio di fabbrica. Il trovare “normale” che uno debba avere un nomignolo nella vita comune come “Gastone”, o “‘a carogna” o “UomoMordeCane”. No vabbè, quella è altra cosa.
Il trovare “normale” che si possa mandare affanculo gli altri, se non sono nati nella tua città, questo Cristo di campanilismo che è tanto più forte e sentito quanto più sei un fottuto ignorante attaccato alle tue radici balorde, che pensi abbiano un valore maggiore di altre perché sono “tue”.
Il trovare “normale” che la gente, allo stadio, possa comportarsi diversamente da come si comporta alle Poste o al bar.
Il pensare che minacciare, insultare, aggredire qualcuno, negli stadi, sia qualcosa di più tollerabile che altrove. E che se la cosa accade fuori, come in questo caso, ci sia comunque una logica generale che “ricomprende” nella partita di calcio tutto ciò che è avvenuto anche fuori dallo stadio. Dunque, se ti sparo prima della partita e tu sei un “tifoso”, la cosa rientra nelle azioni violente da stadio. E ha un regime speciale, già solo mentale.
Il solo ritenere “normale” la logica tribale del tifo organizzato, che gente dedichi energie appresso a fuffa, al pallone, e le dedichi spesso in modi fuorilegge: padri di famiglia che augurano cancri ad altri padri di famiglia.
Oh, scusate: a me fa faceva impressione da bambino, fa impressione adesso, che vi devo dire.

Che poi, io andrei ancora oltre – e lo dico da amante del gioco del calcio, del gesto tecnico, dello schema riuscito: ma guardatevela alla tv, ‘sta cazzo di partita.

Eh? Non è la stessa cosa? Certo, finché non farai uscire di casa Genny ‘a carogna.

GALILEO LIBERO