Amicizie e regalìe

Due tavole regalatemi dall’amico e immenso artista Matteo Bertelli:

 

14 giugno 1982 – Argentina: Finisce la guerra delle Falkland. Che verrà riaperta anni più tardi da un gol di mano di Maradona all’Inghilterra.

 

6 luglio 1997 – La sonda Mars Pathfinder si posa su Marte. Ma nelle foto del catalogo Francorosso era tutta un’altra cosa.

 

Le trovate nel mio libro, “UomoMordeCane, il Vaticano smentisce ogni coinvolgimento”, insieme a tanti altri suoi lavori.

Credo che la sua maestria la possiate apprezzare direttamente dalla sua mano:
 

 

La presente come pubblico ringraziamento e squallida marchetta (ma sono meno di 5 euro, su). Si compra qua.

L’italiano e la purezza della mazza

“Ho potuto sentire i primi versi da scimmia dopo cinque minuti. All’inizio non ho pensato nulla, ma poi si sono ripetuti e sono andato dall’arbitro avvertendolo che se fossero proseguiti avrei lasciato il campo. Ha provato a calmarmi, ma quando sono ricominciati i cori, allora ho pensato ‘adesso basta, non continuerò a giocare’. […] Ero arrabbiato, triste, scioccato, il fatto che cose come queste accadano ancora nel 2013 è una disgrazia, non solo per l’Italia, ma per il calcio nel mondo. […] Quando è troppo, è troppo, il razzismo non ha posto nel calcio”.

Kevin Prince Boateng, 5 gennaio 2013.

Gesto forte, condivisibile, di grande dignità.

Peccato che a Boateng sfugga un particolare: gli italiani sono razzisti. Fascisti e razzisti. Lo sono ab origine. Lo sono ancestralmente, storicamente ma di più: ontologicamente. Non è questione di scelta, di educazione o di obiettivi da porsi. È uno stato di cose, un fatto, ma anche uno Sachverhalt che arriva ad una semplicissima conclusione: “siamo razzisti perché veniamo da una cultura fascista e razzista”.

La nostra origine è in una frammentazione popolare, culturale e un “borgatismo” quale l’epoca dei comuni, che ci impedisce di “accogliere il diverso”. Siamo malfidati, non abbassiamo il ponte levatoio allo straniero, specie se questo presenta tratti palesemente diversi da quelli conosciuti all’interno delle nostre mura. Il negro è negro: troppo riconoscibile, troppo diverso, troppo grosso. Parlo del cazzo, certo. Qua non entra. Sempre il cazzo.

Non è questione più di educazione familiare o scolastica: noi nasciamo immersi in un contesto fortemente fascista, nel quale l’intera società ti insegna fin da piccolo quelli che sono i sistemi per sopravvivere, gli italici valori.
È in società che impari che se sei infermiere volontario in ospedale da quattro anni senza manco una borsa di studio hai più possibilità di vincere un concorso apparentemente aperto a tutti. È in società che ti insegnano che “comunque quello è il figlio del primario, dunque sai già…”. È in società che “comunque chiedi del dott. Vincenti e digli che ti mando io”.
Ma è sempre in società che poi se sei tu quello ad avere lo zio primario fai finta di nulla e passi avanti. Ed è per questo che io sto qua a demagoghizzare e populismizzare e neologismizzare con tanta facilità: semplice essere duri e puri se non hai il privilegio di essere sporco di merda.

E tutto questo non è affatto altro mondo rispetto ai cori razzisti a Boateng, che comunque ha a suo sfavore anche l’essere un milionario, sul quale homini poco più che abilis (si veda l’incedere, i suoni gutturali e l’utilizzo di strumenti rudimentali quali mazze e tamburi) possono sfogare liberamente le loro disoccupazioni.

È un sistema. Mentale. È un non-popolo, il nostro che ha inventato le corporazioni, già dai tempi di Roma e fino a Diocleziano, non per tutelare chi vi fosse dentro ma per chiudere fuori gli altri.

Gli altri. Perché tutti per noi sono “gli altri”.

Sono “altri” quelli altrove.
Sono “Altri quelli che vivono in diverso quartiere rispetto al mio. Hanno idee e usanze diverse dalle mie. Vuoi mettere quelli del Vomero e quelli di Scampìa?
Sono “Altri” quelli che non votano come te.
Sono “Altri” quelli che si fanno un tatuaggio se tu non ne hai. O che non se lo fanno se ce l’hai.
E non sono “Altri” visti come diversità che ti arricchisce, stocazzo: sono “Altri” ergo “pericolosi”, per definizione.

Abbiamo palii e contrade, viviamo il nostro condominio come diverso da quello accanto – migliore anzi, guarda che grondaie in rame, altro che quelle in plastica di quegli “altri”.

Ci terrorizza tutto ciò che è nuovo. Per questo abbiamo un Papa in casa: rappresenta la continuità medievale, talare, di pensiero. Un uomo in gonna che si affaccia ad un balcone – genta a bocca aperta all’insù, con un’evidente corrispondenza tra postura e pensiero – e parole misurate, rassicuranti: “State calmi, non cambierà mai nulla. Pace, amor… ehi, è un frocio quello?”.

Queste chiusure iperconservatrici servono agli italiani per la coesione e la stabilità sociale, che altrimenti mancherebbe del tutto, parlando persino dialetti diversi a distanza di venti km.
Il punto ancor più dolente è che questa convivenza tra origini tanto diverse ha accentuato altri beceri caratteri dell’umanità italica: la sfiducia nell’altro e nel sistema centralizzato, nello Stato e nelle strutture di governo.
Il dentista mi lavora in nero per non dare soldi “a quelli là”, che sono lontani, dunque ostili.
La Lega trae nutrimento da questo modo tribale di pensare, dal “Roma ladrona”: fa leva su pulsioni assolutamente reali ed esistenti: l’identificazione in micro-comunità, in coniurationes fra piccoli gruppi di cittadini. Perché Bergamo alta è già diversissima dalla bassa.

L’Italia non esiste, caro Boateng.
Non sto dicendo che non esistano persone aperte e progressiste, certo. Sto dicendo che è proprio il concetto di Italia a mancare. Perché lei, in Italia, si troverà di fronte non italiani ma tribù ed individui. E lei, caro Boateng, frequenta le tribù italiche peggiori, quelle degli stadi, quelle nelle quali è più facile trovare lo stato dell’arte del pensiero ristretto, borgataro e fascista. Dunque razzista.
Provi a passare un pomeriggio da Feltrinelli invece di presenziare a qualche festa per l’apertura di un nuovo club di tifosi: forse sarà più facile trovare gente aperta. Certo, anche in libreria troverà il medico che mentre sfoglia Ezra Pound la guarderà male. Ma probabilmente non si metterà a farle “Buuu!”.
Oddio, magari se è logopedista.

Lei è negro, caro Boateng. Un negro in un paese non-paese. E questo per gli italioti è colpa sufficiente.
È Solo da tirare le somme e prendere atto che il nostro è un popolo disgraziato. Disgraziato come pochi altri al mondo.

È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
[…] La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. […]
Questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.

Manifesto della razza, 5 agosto 1938.

Ah, c’è un modo in grado di far diventare l’italiano davvero aperto al diverso. Ce lo insegna la storia.
Margherita Sarfatti era ebrea ma Mussolini se la sbatteva con piacere.
Dunque la ricetta per aprirci al diverso è chiara: la figa.
Ma quello è sempre stato linguaggio universale.

Bestie sfigate

Ci sono segnali di grossa distanza tra le persone e la classe polit… Ahahah! Scherzo: vi parlerò di giraffe.
Ve lo sto dicendo chiaramente, GIRAFFE. Poi non ditemi che abuso di catafore.
C’è qualche animale più strano e comunque meno “documentariato” delle giraffe? Pensateci.
Come vivono? Come si spostano? Migrano? Come si riproducono? Che fanno a Capodanno?
Sui vari canali Animal Channel e Discovery Bestie vedo sempre e solo ‘sti cazzo di ghepardi. Che corrono, puntano vigliaccamente una gazzellina di tre kg con tutti gli zoccoli e se la mangiano. Quando quella magari si stava facendo i cazzi suoi e aveva già fissato l’aperitivo alle sette.
Ma si sa, la savana è puttana* e non ti permette di pianificare nulla. Sarà per questo che là gli spritz tirano pochissimo.
O gli gnu, Gli gnu. Ditemi voi, che interesse possono rivestire degli animali che sono più brutti dei bisonti, più scemi delle antilopi, ma che soprattutto vivono spostandosi continuamente verso l’acqua, morendo a centinaia durante la migrazione. Cristo, ma se l’avete trovata restate là!
Giraffe mai.
Cioè, le vedi pure eh, ma in ruoli da comprimarie. Mai un documentario bello incentrato su di loro.
Perché secondo voi? Scarso interesse? Mancanza di fondi? Sindacato delle giraffe debole?
Io ho una mia teoria.
E c’entra uno gnu.

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*Detto popolare di Lambrate

Scoregge comunicative

Che differenza passa tra un essere umano ed un bovino di taglia media? Apparentemente nessuna, se il parametro è la persona con la quale in genere dormite.
Ma se proviamo a generalizzare un po’ ci accorgiamo che la più grossa differenza è la diversa capacità di comunicare.
Prendiamo ad esempio un dialogo-tipo tra uomo e donna:

Uomo: Cazzo è ancora ‘sta roba?
Donna: È Masterchef.
Uomo: Cristo, ancora gente che cucina in tv?!
Donna: L’alternativa sarebbe? La partita?
Uomo: Certo! C’è Sassuolo-Livorno!
Donna: Imperdibile, certo.
Uomo: Sicuramente più di broccoletti e salsa tartara.
Donna: Sei un coglione.
Uomo: Troia.

Come vedete la comunicazione è varia, articolata e raccoglie elementi di cultura personale (piacere per la cucina, interesse per il calcio), stati d’animo (nervosismo, poca attenzione all’altro), caratteristiche comportamentali (coglione, troia).

Immaginate la stessa conversazione tra un essere umano ed il bovino di taglia media di cui sopra:

Uomo: Cazzo è ancora ‘sta roba?
Bovino: È Masterchef.
Uomo: Cristo, ancora gente che cucina in tv?!
Bovino: L’alternativa sarebbe? La partita?
Uomo: Certo! C’è Sassuolo-Livorno!
Bovino: Imperdibile, certo.
Uomo: Sicuramente più di broccoletti e salsa tartara.
Bovino: Sei un coglione.
Uomo: Troia.

Ecco, in questo caso ho pescato un bovino particolarmente loquace. Ma in genere questa specie animale si sarebbe limitata a rispondere: “Muuuuh” ad ogni passaggio. Impoverendo anche la dialettica dall’altra parte:

Uomo: Cazzo è ancora ‘sta roba?
Bovino: Muuuuh.
Uomo: Eh?!
Bovino: Muuuuh.
Uomo: Non sai dire altro?
Bovino: Muuuuh.
Uomo: Non si può andare avanti così.
Bovino: Muuuuh.
Uomo: Troia.

Questo come premessa necessaria per capire quanto successo l’altra sera. Su Facebook avevo notato uno che mi metteva “mi piace” in modo seriale su tutta una serie di risposte particolarmente sarcastiche. Dato che la roba che scrivo sulla mia pagina FB riconosco non sia per tutti, ho particolarmente apprezzato la cosa e un po’ per gratitudine dato che mi segue, un po’ perché mi piace conoscere gente nuova, gli ho chiesto amicizia. Prontamente accettata. Al che è iniziato un dialogo brevissimo, che ha preso una piega del tutto inaspettata e con un finale che ritengo grottesco ma molto utile ai fini della comprensione dei meccanismi alla base degli scambi comunicativi tra persone diverse dai bovini.

Ecco, questa è la dimostrazione più evidente di come non sia mai possibile dare per scontato il possesso di identici registri comunicativi.
A nulla vale la contestualizzazione ambientale, anzi: è fuorviante. Il mio ritenere le persone che mi seguono come… persone che davvero mi seguono e capiscono sempre ciò che dico, ma soprattutto comprendono i toni a prescindere, ha generato in me l’idea che queste fossero già “tarate” su un certo tipo di linguaggio, che è quello che adotto quando scrivo qua sopra o su Facebook. In sintesi, ho ritenuto il tizio della conversazione alla stregua di quei miei amici coi quali ci si saluta augurandoci una morte dolorosa o almeno la perdita di un avambraccio. E con un linguaggio consono.
Perché è proprio questo l’errore che si commette quando si ritiene (erroneamente) di comunicare con una persona, della quale si conosce in realtà poco: diamo per presunte tutta una serie di caratteristiche che magari sono completamente assenti. In questo caso la sua capacità di astrazione ed immersione in un dialogo surreale, l’apprezzare una comunicazione “diversa” dalle solite: ecco, questa parte proiettivo-comunicativa, capire che il suo interlocutore in quel momento non era persona ma personaggio è stata idea in lui del tutto assente. Questo si relazionava con me esattamente come avrebbe fatto con una persona qualunque che gli stesse chiedendo amicizia su Facebook. A nulla è servito il mio presentarmi come “UMC”: quella che ritenevo una “patente” comunicativa in grado di farci bypassare convenevoli ed inutili riguardi, puntando invece direttamente su toni volutamente paradossali e (per me) palesemente ironici si è rivelata una (mia) comunicazione perdente.

L’epilogo è stato fortemente illuminante:


Notate? Parla di educazione e rispetto. Ma anche di presunzione. Non è riuscito a centrare minimamente non solo la mia volontà di traslare l’intera comunicazione su un piano diverso e fortemente ironico ma gli è mancata anche la capacità di cogliere quella parte di forte autoironia nella quale denigravo lui per denigrare il personaggio UMC (“Se avessi dignità non seguiresti UMC”). In sintesi mi davo del coglione da solo, ma per tutta risposta ho ottenuto l’equivalente del “Muuuuh” del bovino di taglia media. Certo, con più avverbi e qualche CAPS LOCK (i bovini hanno seri problemi con la tastiera: sarà per la conformazione delle zampe).

Sarebbe facile ora parlare di sopravvalutazione dell’interlocutore: la verità è che la carenza e l’incapacità di adottare il giusto registro comunicativo è stata solo mia. Ho dato per scontate troppe cose, approcciato in modo errato, non compreso segnali dell’interlocutore.
E questo mi ha fatto perdere un lettore, potenziale acquirente delle mie cose.

Certo, non le avrebbe capite.