Poesia, magia nelle piccole cose

Giaceva come incupita, avvolta solo da se stessa e da quella polvere microscopica che lascia sulle dita quando la sfiori e hai – immediata – la sensazione di aver toccato qualcosa di finto, di artificiale.

Notavo, nette e pronunciate, decine di linee a raggiera; salivano e morivano d’improvviso venature brune, vive solo nel materiale grezzo, che correvano sulle pareti esterne, come a formare un ruvido sistema vitale a pulsare linfa nell’intera struttura e che riportava alla fotosintesi e quelle dolci reminiscenze scolastiche circa il parallelismo tra apparato circolatorio dell’uomo e sistema fibroso delle piante.

Quella scatola di cartone pareva più viva di quanto forse non fosse.

Se ne stava là, come punita da un Dio alterato, con un vivido bozzo, grande quanto una mano, proprio sul lato lungo che le conferiva un aspetto sofferente, quasi pietoso.
E quelle alette: una restava aperta a metà, rivoltata verso l’esterno, come l’orecchio d’un botolo pestato dai ragazzini.

L’ombra che proiettava quel sarcofago marrone invece tradiva un’austerità tutta diversa: sembrava il parallelepipedo immaginato da Kubrik. Mancavano solo le scimmie curiose.
Ed il suo contenuto. Il contenuto. Un oggetto che vive solo per proteggere e celare agli occhi il suo contenuto.

Sarei rimasto ancora ore a fissare quell’opera monumentale e insieme nulla, un corpo deforme eppure pieno di storia, di mani, progetti, idee che l’avevano attraversata.

Ma mi ero già rotto tre quarti di cazzo a guardare una scatola rotta per terra.