Siamo tutti fatti d’anima e carne

tolleranza (1)

Io credo che questa diffidenza debba essere sradicata dalla nostra cultura, sempre un po’ razzista e chiusa.
Capisco che il contatto (repentino peraltro: qualche anno fa erano pochi e comunque non erano così malvisti) con gente così diversa da noi, possa generare un po’ di ansia, e soprattutto capisco quelli più spaventati dalle enormi distanze culturali che ci separano da loro, ma basta riflettere un po’ e pensare che anche noi, se fossimo cresciuti in un ambiente culturalmente diverso, saremmo venuti su con convinzioni che oggi ci sembrano inaccettabili.

Voglio dire, se mio nonno mi avesse messo in testa che mangiare maiale è atto abominevole, se mio padre avesse poi continuato su quella falsariga, io sarei venuto su senza panini al prosciutto ma sarei comunque la persona che sono, e soffrirei se chi il maiale lo mangia mi vedesse diverso. Certo, starebbe anche a me non considerare persona indegna chi preferisce la porchetta al couscous.

Credo che si debba andare oltre anche l’odioso concetto di “tolleranza”: dà sempre l’idea di sopportazione, un pentolone che ribolle pronto a far saltare il coperchio in caso di minimo alzar di fuochi.
Ammetto che è anche colpa di molti di loro, dei loro eccessi, che sono a volte sfociati in atti di vero abominio, che si è innescata questa spirale di diffidenza che ha portato una contrapposizione culturale come mai s’era vista: a noi dà fastidio il loro volerci convertire, la loro presunta arroganza, il loro sacro fuoco della verità. Ma non facciamo lo stesso anche noi coi nostri simboli? Certo magari la nostra cultura ha affinato meccanismi diversi e sedato certi estremismi, ma non mancano neppure da noi esempi belligeranti e ciechi.
E ricordiamo che i fanatici non sono tanti, ma sono certamente più “rumorosi” e dunque li notiamo di più: sono loro a fare notizia.

Dunque, il mio desiderio è quello di riuscire, una volta per tutte, a trovare una strada di dialogo, tra noi e loro, nonostante le difficoltà, nonostante per noi siano incomprensibili certi usi, nonostante le enormi distanze culturali.

Perché siamo tutti abitanti della stessa terra, sotto lo stesso cielo, noi e i vegani.

L’italiano e la purezza della mazza

“Ho potuto sentire i primi versi da scimmia dopo cinque minuti. All’inizio non ho pensato nulla, ma poi si sono ripetuti e sono andato dall’arbitro avvertendolo che se fossero proseguiti avrei lasciato il campo. Ha provato a calmarmi, ma quando sono ricominciati i cori, allora ho pensato ‘adesso basta, non continuerò a giocare’. […] Ero arrabbiato, triste, scioccato, il fatto che cose come queste accadano ancora nel 2013 è una disgrazia, non solo per l’Italia, ma per il calcio nel mondo. […] Quando è troppo, è troppo, il razzismo non ha posto nel calcio”.

Kevin Prince Boateng, 5 gennaio 2013.

Gesto forte, condivisibile, di grande dignità.

Peccato che a Boateng sfugga un particolare: gli italiani sono razzisti. Fascisti e razzisti. Lo sono ab origine. Lo sono ancestralmente, storicamente ma di più: ontologicamente. Non è questione di scelta, di educazione o di obiettivi da porsi. È uno stato di cose, un fatto, ma anche uno Sachverhalt che arriva ad una semplicissima conclusione: “siamo razzisti perché veniamo da una cultura fascista e razzista”.

La nostra origine è in una frammentazione popolare, culturale e un “borgatismo” quale l’epoca dei comuni, che ci impedisce di “accogliere il diverso”. Siamo malfidati, non abbassiamo il ponte levatoio allo straniero, specie se questo presenta tratti palesemente diversi da quelli conosciuti all’interno delle nostre mura. Il negro è negro: troppo riconoscibile, troppo diverso, troppo grosso. Parlo del cazzo, certo. Qua non entra. Sempre il cazzo.

Non è questione più di educazione familiare o scolastica: noi nasciamo immersi in un contesto fortemente fascista, nel quale l’intera società ti insegna fin da piccolo quelli che sono i sistemi per sopravvivere, gli italici valori.
È in società che impari che se sei infermiere volontario in ospedale da quattro anni senza manco una borsa di studio hai più possibilità di vincere un concorso apparentemente aperto a tutti. È in società che ti insegnano che “comunque quello è il figlio del primario, dunque sai già…”. È in società che “comunque chiedi del dott. Vincenti e digli che ti mando io”.
Ma è sempre in società che poi se sei tu quello ad avere lo zio primario fai finta di nulla e passi avanti. Ed è per questo che io sto qua a demagoghizzare e populismizzare e neologismizzare con tanta facilità: semplice essere duri e puri se non hai il privilegio di essere sporco di merda.

E tutto questo non è affatto altro mondo rispetto ai cori razzisti a Boateng, che comunque ha a suo sfavore anche l’essere un milionario, sul quale homini poco più che abilis (si veda l’incedere, i suoni gutturali e l’utilizzo di strumenti rudimentali quali mazze e tamburi) possono sfogare liberamente le loro disoccupazioni.

È un sistema. Mentale. È un non-popolo, il nostro che ha inventato le corporazioni, già dai tempi di Roma e fino a Diocleziano, non per tutelare chi vi fosse dentro ma per chiudere fuori gli altri.

Gli altri. Perché tutti per noi sono “gli altri”.

Sono “altri” quelli altrove.
Sono “Altri quelli che vivono in diverso quartiere rispetto al mio. Hanno idee e usanze diverse dalle mie. Vuoi mettere quelli del Vomero e quelli di Scampìa?
Sono “Altri” quelli che non votano come te.
Sono “Altri” quelli che si fanno un tatuaggio se tu non ne hai. O che non se lo fanno se ce l’hai.
E non sono “Altri” visti come diversità che ti arricchisce, stocazzo: sono “Altri” ergo “pericolosi”, per definizione.

Abbiamo palii e contrade, viviamo il nostro condominio come diverso da quello accanto – migliore anzi, guarda che grondaie in rame, altro che quelle in plastica di quegli “altri”.

Ci terrorizza tutto ciò che è nuovo. Per questo abbiamo un Papa in casa: rappresenta la continuità medievale, talare, di pensiero. Un uomo in gonna che si affaccia ad un balcone – genta a bocca aperta all’insù, con un’evidente corrispondenza tra postura e pensiero – e parole misurate, rassicuranti: “State calmi, non cambierà mai nulla. Pace, amor… ehi, è un frocio quello?”.

Queste chiusure iperconservatrici servono agli italiani per la coesione e la stabilità sociale, che altrimenti mancherebbe del tutto, parlando persino dialetti diversi a distanza di venti km.
Il punto ancor più dolente è che questa convivenza tra origini tanto diverse ha accentuato altri beceri caratteri dell’umanità italica: la sfiducia nell’altro e nel sistema centralizzato, nello Stato e nelle strutture di governo.
Il dentista mi lavora in nero per non dare soldi “a quelli là”, che sono lontani, dunque ostili.
La Lega trae nutrimento da questo modo tribale di pensare, dal “Roma ladrona”: fa leva su pulsioni assolutamente reali ed esistenti: l’identificazione in micro-comunità, in coniurationes fra piccoli gruppi di cittadini. Perché Bergamo alta è già diversissima dalla bassa.

L’Italia non esiste, caro Boateng.
Non sto dicendo che non esistano persone aperte e progressiste, certo. Sto dicendo che è proprio il concetto di Italia a mancare. Perché lei, in Italia, si troverà di fronte non italiani ma tribù ed individui. E lei, caro Boateng, frequenta le tribù italiche peggiori, quelle degli stadi, quelle nelle quali è più facile trovare lo stato dell’arte del pensiero ristretto, borgataro e fascista. Dunque razzista.
Provi a passare un pomeriggio da Feltrinelli invece di presenziare a qualche festa per l’apertura di un nuovo club di tifosi: forse sarà più facile trovare gente aperta. Certo, anche in libreria troverà il medico che mentre sfoglia Ezra Pound la guarderà male. Ma probabilmente non si metterà a farle “Buuu!”.
Oddio, magari se è logopedista.

Lei è negro, caro Boateng. Un negro in un paese non-paese. E questo per gli italioti è colpa sufficiente.
È Solo da tirare le somme e prendere atto che il nostro è un popolo disgraziato. Disgraziato come pochi altri al mondo.

È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
[…] La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. […]
Questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.

Manifesto della razza, 5 agosto 1938.

Ah, c’è un modo in grado di far diventare l’italiano davvero aperto al diverso. Ce lo insegna la storia.
Margherita Sarfatti era ebrea ma Mussolini se la sbatteva con piacere.
Dunque la ricetta per aprirci al diverso è chiara: la figa.
Ma quello è sempre stato linguaggio universale.