Prega per me e per FruttoloFruttolo

Da piccolo dicevo le preghiere, un po’ come tutti i bambini, tranne quelli particolarmente svegli. Te le facevano imparare al catechismo, giocavano subdolamente con la tua capacità naturale di memorizzare ogni cosa, nenie in particolare. Su questa cosa hanno campato per decenni centinaia di pubblicitari jinglomani senza scrupoli, tirando fuori mostri come l’Omino Bialetti, “FruttoloFruttoloFruttoloFruttolo”, “Le stelle sono tante milioni di milioni, la stella di Negroni”, il “più lo mandi giù e più ti tira su”, il “potevamo stupirvi con effetti speciali”, “Cynar, l’amaro vero ma leggero”, “Dovevamo recuperare quella cazzo di salma della vecchia, sapevamo che non ce l’avremmo fatta, dunque giù a ciuccarsi di Montenegro”, “FruttoloFruttoloFruttoloFruttolo”, il chichichichi pulisce più di Chante Clair, “Alle morbide FruitJoy tu resistere non puoi devidevidevidevi masticar”, “Tutto il giorno di corsa, a pranzo solo un panino e adesso: questa cazzo di Fiesta”, Ambrogio, la mia non è più fame ma più voglia di FruttoloFruttoloFruttoloFruttolo”.

Ricordo – chiarissima ancora – la sensazione che sentivo quando dovevo iniziare: ero scocciato. Scocciato nel senso più puro del termine. Non avevo bene chiaro il concetto di autoanalisi e comprensione delle proprie emozioni, dunque il massimo che potevo realizzare era un “uffa”, ad esprimere un concetto che trovavo comunque ben delineato e ampiamente autoconsistente.
“Uffa” era in grado di descrivere un intero universo, a quell’età.

Oggi, grazie ad una naturale crescita, anni di studio e immersione nella società, ovviamente il vocabolario si è enormemente arricchito e per descrivere quello stato emotivo uso concetti più articolati, tipicamente bestemmie.

Trovavo noioso dover recitare quella serie di parole – per lo più senza senso – in quel preciso ordine precostituito.
Quando poi si trattava di sequenze di preghiere letteralmente cadevo in depressione. Il rosario. Ecco: il rosario rappresentava una sorta di punizione. Il che ci stava anche, visto il concetto di peccato che cristianamente trasudava da ogni pensiero, parola, opera o omissione (per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa, colpa di un seienne che al massimo si macchiava di sugo quando affrontava rigatoni troppo più potenti delle sue manine).

La colpa.

Mi sentivo in colpa nel pensare “uffa” all’atto di accingermi a pregare. E allora cercavo di non pensare “uffa”. Spostavo il fuoco su qualcos’altro: a catechismo mi avevano insegnato ad apprezzare la Passione di Gesù, la sua sofferenza, il suo dolore fisico, che ci ha donato senza chiedere nulla in cambio, mica come Pato.
E allora mi concentravo sulla ferita al ginocchio, quell’abrasione profondissima da scivolata sul cemento durante corse affannose, che tuttora segna le infanzie di bambini non obesi.
Ah, il prete ovviamente doveva accontentarsi di quelli obesi, appunto: gli unici che riusciva a raggiungere, quelli senza le ferite sulle ginocchia. Perché pensate che io ne avessi tante?

E insomma, se non mi facevo abbastanza male mi davo un colpetto sulla ferita. Mi provocavo dolore, un po’ per concentrarmi su esso, un po’ per assomigliare a Gesù.
Ma a questo punto pensavo che forse era peccato voler assomigliare a Gesù.
E mi sentivo in colpa.
Poi mi autoassolvevo: come può essere peccato voler assomigliare a Gesù? E allora che sarebbe assomigliare al diavolo?
Ma di nuovo interveniva la mia voce interiore cristiana, quella alla perenne ricerca di una qualche cazzo di colpa, che mi raggirava subdolamente e riusciva ad incularmi ancora, un po’ come avrebbe fatto il prete se fosse stato più veloce di me.

Assomigliare a Gesù sarebbe stato peccato di vanagloria. Assomigliare al diavolo peccato di assomigliare al diavolo. Non assomigliare a nessuno, peccato di mancanza di modelli di riferimento. Assomigliare a tutti, peccato di essere uno specchio.

Peccato comunque, sempre.

Dunque le preghiere.
Ed il ciclo ricominciava, in una spirale che si autoalimentava con le mie crosticine sulle ginocchia ed il mio lento ma inesorabile procedere verso il giorno della vera presa di coscienza: quella nella quale realizzi che davvero, quella serie di parole una dietro l’altra, sempre uguali, per stare bene con te stesso funzionavano meno, molto meno, troppo meno di un gin tonic.

O di un FruttoloFruttoloFruttoloFruttolo.

 

Rivisitazioni pubblicitarie

Tua moglie è al banco dei salumi e tu cazzeggi col telefono e lei ti dà il compito di
scegliere la frutta e a te fa pure piacere dare una mano e allora metti il guantino
sottilissimo per tastarla ma è sempre appiccicato e allora ti bagni la punta delle dita con
la lingua ma avevi prima spostato una cassetta vicino l’immondizia perché dava problemi nel
parcheggio e l’avevi toccata proprio nel punto sul quale viveva una colonia di batteri di
clostridio e in una settimana cominci ad avere febbre e problemi di respirazione e vieni
curato malissimo in ospedale e l’infezione ti provoca paralisi generalizzata fino al collasso
cardio-respiratorio e tempo 48 ore muori.
La Coop eri tu.

Tua moglie si scopa il vicino di casa e insieme scappano via ma tu te ne accorgi sono dopo
una settimana ché quella troia ti aveva detto che andava da sua madre invece era alle Maldive
con Fausto e in quella settimana ti spazzola tutto il disponibile sulla carta di credito e tu
resti col culo a terra e a niente serve la denuncia perché sei stato furbissino e la carta è
cointestata e dunque tutto quel che puoi fare è cercare contanti in casa per mangiare
qualcosa ma niente manco per cazzo e capisci che quella carta di credito ti ha rovinato.
Non c’è resto sulla Mastercard.

Si vedeva che stava male ma lui niente e continuava quegli interventi di sbiancamento e poi
dissero che era per una malattia ma la verità è che nessuno poteva essere davvero dentro la
testa di Michael Jackson ed ora che sono passati anni e tanto è stato detto e scritto ho
visto delle foto del suo letto di morte e mi ha fatto specie vedere quell’uomo che ha
raggiunto il suo scopo di essere diverso grazie alla beffarda mano della morte.
Più bianco si può.

Ed è stato terribile come solo uno spaventoso incubo poteva essere ma quella era realtà e mi
trovavo circondato da esseri assetati di sangue che ghignavano e si avvicinavano con incedere
lento ma inesorabile verso quel centro immaginario nel quale mi trovavo e io non vedevo
alcuna via d’uscita e l’unico pensiero che mi attraversava la mente era farla finita subito e
lasciare si compisse il mio destino in mano a quei mostri.
La mia banca era tutta attorno a me.