E ALLORA LO OSPITO A CASA MIA

Ho ospitato un extracomunitario. Mi fa: “Sai che noi Svizzeri abbiamo le banche più belle del mondo?“. Ci resto un po’ male nel verificare che manco un rigo e già ho messo un luogo comune, ma non faccio in tempo a dire nulla che lui mi porge una tavoletta di cioccolato. “Questa non è né equa né solidale, infatti è buona“. Assaggio e in effetti quel cioccolato non ha la patina marroncina chiara tipica dei prodotti equi, solidali e immangiabili che compri pensando di fare del bene e invece stai finanziando la lobby dei produttori di patina marroncina chiara.

Insomma lo svizzero, che si chiama Tonino Saccaromiceto (chiedo: non è parente) pare gradire che l’abbia ospitato.

È che leggo sempre “E ALLORA OSPITALI A CASA TUA“, e così ho provato. Solo che sotto casa, a mendicare nel parcheggio del supermercato, c’era solo questo svizzero. L’ho riconosciuto dal fatto che quando riceveva l’elemosina rilasciava ricevuta, il che è piuttosto raro intorno a quel supermercato. Gli costava più di tasse che altro, ma gli svizzeri si sa, sono così, e questo è il terzo luogo comune (l’editore mi riconosce un bonus).

Tecnicamente è extracomunitario, praticamente occupa un posto letto, fastidio ne ho perché vivo in 40 metri quadri peraltro già occupati da una famiglia che non ne vuole sapere di lasciare l’appartamento (dicono sia loro, ma io ci vivo da tre mesi e un po’ di diritto l’ho studiato e so come funzioni l’usucapione abbreviata), dunque ora sto a posto. Quando mi diranno: “E ALLORA OSPITALI A CASA TUA” risponderò: “Già fatto, minuscolo“. “Minuscolo” è a doppio senso, ma loro non ne capiranno nessuno dei due.

In settimana dovrebbe piovere.

Breve prontuario contro gli obblighi parentali

46187
Una famiglia-tipo riunita. A capo tavola il nonno racconta aneddoti infarciti di robe sporche (si notino le banane a portata di mano per la solita gag finale)

“Il nuoto è lo sport più completo”.

Fino a quanti anni è lecita una affermazione del genere? No, nel senso: se hai trent’anni, quante volte l’hai sentita, questa cosa? Se ne hai quaranta, non ne sei nauseato? A cinquanta non imbracci un fucile per sparare a chi ancora se ne esce con queste banalità, magari in una tavolata con altri quaranta-cinquantenni che invece di aggredire il luogocomunista annuiscono come se avessero sentito chissà quale grande, inedita verità?

Cena con parenti. Tutti riuniti, cellulare in mano, ad aspettare di fotografare piatti uguali a quelli della volta precedente.
– Scusa, ma quella foto del timballo, poi, la riguardi?
– Eh?
– È un Galaxy?
– Sì.
– Bello, bello, chiedo venia, continua pure.

Perché creare cortocircuiti è piacevole, ma non puoi farlo in modo troppo spudorato, palese. Hai da mantenere una diplomatica ipocrisia, che ti disegna sul viso i contorni del sorriso di Joker, per tutta la durata del conviviale raduno.
I muscoli facciali si irrigidiscono a tal punto che quando rientri nella tua macchina, nel rilassarli ti escono peti dovuti alla pelle che si riassesta in tutto il corpo (l’automobile è il luogo nel quale maggiore è la percentuale di peti rilasciati rispetto a qualunque altro posto).

– TANTI AUGURI A TEEEE
– E LA TORTA A MEEEE
– Ahahahah!
– Come?
– Cosa?
– La cosa della torta.
– Eh? No, gli auguri a te, e la torta a me! Ahahaah!
– Non ho capito: noi non la mangiamo?
– Ma no! È uno scherzo!
– Ah, non ci ero arrivato, circondato come sono da ultracinquantenni mi ero tarato anch’io su un’età adulta, chiedo venia, continua pure.

Che poi ti prendono per asociale, quando, semplicemente, come hai smesso di trovare credibili e divertenti i Flinstones a tredici anni, Tom e Jerry a dodici e Cristo a undici, hai pure visto i tuoi meccanismi di elaborazione dell’umorismo radicalmente rinnovarsi: se da preadolescente i tormentoni di Ezio Greggio li trovavi tutto sommato pedanti, a diciotto avresti volentieri ricreato l’ambiente di Saw per l’intero cast del Drive-in (tenendo sotto formalina le tette della Tinì Cansino).

Quel che mi chiedo è: perché vale solo per me? Su dieci persone, possibile che solo io trovi insopportabile tutta la manfrina fatta di:
– Ma quanto è cresciuto questo ragazzino! Sembra ieri che lo tenevo in braccio!
– Era ieri.
– Eh?
– Ieri lo tenevi in braccio. Mentre gli dicevi che quando era piccolo lo tenevi in braccio come in quel momento, e lui smessaggiava nella sua lingua cuneiforme coi suoi amici senza degnarti di attenzioni, come ora.
– Ma… Era per dire…
– Ah, allora vale tutto, pure dirgli “l’iguana è un animale molto particolare, specie mentre legge l’ultimo di Roth con gli occhiali per la presbiopia”; chiedo venia, continua pure.

Qua dobbiamo prendere atto che il cambiamento parte da noi, dalle piccole cose, dal rifiuto dei riti familiari pseudovolemosebene, stressanti per chiunque abbia a parteciparvi.

Se un cognato attacca con “Gli auguri sì, ma il regalo niente, ahahaah” interromperlo con un ceffone è doveroso.
Se un cugino se ne esce con “La Rubbentus, ahahaha”, colpirlo con un cavatappi sul bulbo oculare rappresenta un preciso obbligo sociale.
Se il bambino attacca con la poesia sul sole che splende robustoso e forte, ricordarsi che non è lui, il Male (comunque colpirlo alla carotide sulla prima sillaba, non è sbagliato), ma tutti quelli che lo stanno riprendendo col telefonino, di fatto ignorando quella tediosa nenia nel presente per renderla immortale fino alla prossima caduta di telefono (l’unica salvezza per la nostra epoca: gravità batte gorillaglass centazzero). Ecco, in quei casi colpire con un nodoso randello quei feticci sollevati a mo’ di accendino al concerto di Baglioni del ’76 si configura come azione che persino Gandy* tatuato Amnesty riterrebbe meritevole.

*il fratello hipster

Facciamo tanto per tenere sotto controllo il colesterolo, ci vacciniamo per le influenze, stiamo attenti a non finire schiacciati dagli autobus che pure fanno il loro onesto servizio pubblico, e poi permettiamo che queste persone stuprino la nostra intelligenza e approfittino del nostro stato di defaillance per essere entrati nostro malgrado in un vortice psichedelico fatto di centrini frattali sui tavoli, vapori di ragù che bolle dalle sei della mattina e tv sintonizzata sulla messa della domenica.
Ed è mercoledì.

La verità è che non sono io ad essere starato. Né mi manca senso dell’umorismo, mi azzardo a dire.

È che finché riterrete che le problematiche sulle mezze stagioni possano costituire valido argomento di discussione a tavola, statemi lontano.

“Bionda, bionda, beato a chi…” “NO!”.

“Non si risponde a una domanda con una domanda”.
Perché?

“I tatuaggi vanno dispari”.
Perché?

“Occorre sempre essere coerenti”.
Perché?

“Non stare troppo al pc”.
Perché?

“Chi non ama gli animali non ama nemmeno le persone”.
Perché?

“Eh, le rosse sono belle ma creano un sacco di casini”
Perché?

E tengo fuori tutti i “si fa/non si fa” di matrice religiosa, altrimenti non ne veniamo fuori.

Più passano gli anni e più mi accorgo che le persone parlano con frasi fatte che vanno oltre i luoghi comuni e la cosiddetta “saggezza popolare”. Si tratta di costruzioni artificiose, spesso anche slegate da qualsiasi aggancio logico, igienico-sanitario, culturale.

La cosa dei tatuaggi dispari – che sembra la più cervellotica – in fondo è l’unica, degli esempi citati, con una ratio storica: i marinai se ne facevano uno prima di imbarcarsi per lunghi viaggi e un secondo una volta arrivati a destinazione. Il terzo, tornati a casa. Dunque, avere tatuaggi pari significava semplicemente non essere ancora a casa. Il che non era necessariamente un male, ma diciamo che il detto poteva avere senso. Allora. Ma oggi siamo nel 2013 e io di marinaio ho solo le promesse; dunque?

Vogliamo o no affrancarci da questo immane peso anticulturale che ci ostiniamo a portarci appresso? Ma non vi va di sentirvi più leggeri? Pensate che davvero l’acqua elimini l’acqua? E cosa elimina l’acqua che elimina l’acqua? Vuoi vedere che alla fine aveva ragione mio nonno e serve il vino?

Tutto questo comporta un peso enorme sulle spalle soprattutto di chi non dispone di armi culturali sufficientemente evolute: sentire frasi fatte e non fermarsi a riflettere sul loro reale significato, sulla loro effettiva corrispondenza al vero, sulla loro utilità, significa affidarsi ad un tassista orbo: da qualche parte ti porta ma non è detto che sia dove vuoi tu, né che ci arrivi tutto d’un pezzo. E soprattutto nessuno ti assicura che il sottoscritto sia in grado di costruire sempre similitudini azzeccatissime.

Il punto è che i ragionamenti preconfezionati spesso impediscono di approcciare la realtà in modo libero, di trovare soluzioni nuove a problemi vecchi, di uscire da loop sui quali ci aggrovigliamo. Quando basterebbe un po’ di sforzo ed evitare di dire senza pensare quella frase che viene in automatico quando accade l’evento X.

“Occorre essere sempre coerenti”. Con cosa? Con se stessi? Ma se io cambio di continuo. Perché dovrei essere coerente con quello che ero prima? Non è l’uomo il sommo esempio di adattività ambientale? Di capacità di cambiamento? Non ci sono infiniti corsi appunto sul cambiamento e sulla sua gestione? Perché la coerenza dovrebbe essere un valore? “Coerente” è una bellissima parola che non significa un cazzo. Se fossi coerente non maledirei la vita su Facebook, ostinandomi a rimanere poi vivo per vedere la finale di Champions. Non parlerei male di tutti gli uomini, dandola poi via all’ennesimo puttaniere che “vabbè, è un po’ stronzo, però…”. Se fossi coerente non manderei a fanculo i politici che rubano, salvo poi accettare il lavoro in nero dal dentista. Se fossi davvero coerente con ciò che ero all’inizio, oggi, sarei uno spermatozoo che vaga alla ricerca di ovuli.

Beh, un po’ coerente sono rimasto.