Perché perché, la domenica mi lasci semCHIUSO

– Devo comprare delle cose, andiamo al centro commerciale?
– È domenica, Di Maio li tiene chiusi oggi.
– E perché?
– Dice che così ci dedichiamo di più alla famiglia e si riequilibra il mercato selvaggio. 
– Però ha ragione. Ragazzi, venite al computer con papà: compriamo un po’ di cose su Amazon.

Precisazioni.

È il tipico provvedimento che fa clamore e non costa nulla. Come la chiusura porti. E non porta niente in termini di diritti. Se so che la domenica lavoro ma so anche che vengo pagato per il festivo e lunedì riposo, dov’è il problema? Che non vengo pagato di più? Allora il problema è la disapplicazione del contratto, e viva l’Italia. Fai rispettare i contratti, non inventare cose che poi saranno di nuovo in qualche modo aggirate all’italiana.

Appresso. Se un posto di lavoro prevede la possibilità di lavorare la domenica io lo metto in preventivo. Se la domenica mi serve libera non faccio quel lavoro. Se ho bisogno del lunedì libero faccio il parrucchiere. Se il sangue mi fa senso non faccio il chirurgo, o il macellaio. Se sono antiabortista non faccio il medico che poi invece di praticare aborti fa obiezione di coscienza. Ah no, scusate, qua si usa così. Comunque. Un lavoro non viene assegnato d’ufficio. Non ancora, almeno (magari ho appena dato un input a qualche grillino).

Appresso, le giustificazioni di Di Maio: stare più con la famiglia. Qua c’è tutto il solito populismo mammone e volemose bene, tutto il provincialismo che questo paese ama. Intanto i posti di lavoro vanno a farsi benedire, l’online prospera, ma io posso pranzare dalla mamma. Disoccupato ma coi cannelloni.

Ultima cosa, anche all’estero molti esercizi chiudono la domenica, ma in molti sono aperti 24/24. E hanno contratti chiari, rispettati. Se qua il lavoratore è spremuto è perché è usanza, è connivenza, si è sempre fatto così.

La domenica non è il problema. È l’italiano.

Mi verrebbe da dire “E LA LEGGE FORNEROOOO???”.

Fisch macht frei

lavoro

Il mercato del lavoro è come il pesce. Dopo tre giorni puzza. Il pesce, dico. Il mercato del lavoro no ma probabilmente ha altri punti di contatto col pesce. Questo se ti occupi di una pescheria, ad esempio. Oppure se vendi acquari o se leggi in tv l’oroscopo, in particolare quando arrivi a “pesci”. In quei casi il mercato del lavoro ha fortemente a che fare coi pesci*, con Lapalisse e con Emo Philips.
* So per certo che i delfini sono molto intelligenti, anche se non sono pesci ma ci assomigliano tantissimo**.
** La digressione sull’intelligenza dei delfini serviva a conferire alla narrazione un che di leggero, visti gli sviluppi a breve.

Però, dato che mi hanno detto che so costruire belle similitudini, proviamo a fare uno sforzo e ad abbandonare la cosa dei pesci, anche se un po’ cominciavano a starmi a cuore, forse per gli Omega 3.

Ecco, il mercato del lavoro è forse più simile ad una latrina, o un cesso pubblico, sì: ricordo di averlo scritto in passato ma ora mi è più chiaro il quadro. C’è tanta gente che fa i comodi suoi da sempre, da quando il cesso era nuovo e pulito.
Questi hanno lasciato merda dappertutto. Tu arrivi perché hai bisogno e cerchi di accomodarti alla meglio, consapevole che sarà una sofferenza ma comunque è necessario. Allora provi a fare le tue cose, ma qualcuno ha già finito le risorse, ha sprecato tutto quello che a te ora servirebbe come l’aria: manca la carta, lo sciacquone è rotto, non puoi appoggiarti da nessuna parte. Provi a cercare altro ma niente: non ci sono cessi liberi a tempo indeterminato. Sono tutti vincolati a condizioni, stagionalità, precarietà. Qualche cesso addirittura richiede un pagamento per potervi accedere, e la cosa la trovi profondamente truffaldina.
Allora ti accontenti di un cessetto a progetto, di quelli aperti giusto per fare le tue cose e poi via, non ci rientri più. E in quel momento ti pare comunque una gran cosa: non hai più orizzonti temporali elevati, vivi la tua cacata alla giornata e pure se non sai dove la farai domani, ora il bisogno è troppo urgente per pensare.

Intanto ti giunge voce che qualcuno meno bisognoso di te ha trovato un cesso meraviglioso grazie ad un suo amico che costruisce cessi per Montecitorio. Ti gira il cazzo. Si sa che alcuni privilegiati hanno cessi sontuosi, con tutti gli accessori.
Questo fa incazzare chi come te è dentro dei letamai, ma ancor più chi ne è del tutto fuori. Allora cominci a dar retta a quello che si è fatto avanti, che pare parlare bene e portare avanti gli interessi di quelli come te, che cercano solo un cesso decente. E gli dai fiducia. Salvo poi capire che il sistema è troppo più grande anche di chi ci crede davvero. E volti pagina e cerchi di non pensarci, né di continuare in questa deriva populista che potrebbe presto portarti a scrivere tutto in maiuscolo e con enorme profluvio di punti esclamativi.

E allora ormai ci sei, nel tuo cessetto provvisorio. Ma non fai neppure in tempo a renderti conto dello schifo che c’è che ti dicono che sei fortunato, che alla porta c’è qualcuno più motivato di te che se non fai le cose velocemente e senza fiatare ti prenderà il posto prima ancora che tu termini le tue cose.
E tu cominci a pensare a come campare senza bisogno di cacare a vita. La morte?
Poi fai un’analisi di coscienza e ti rendi conto che non sei solo: che c’è una famiglia a casa che ti aspetta, che devi pagare il mutuo. E allora non puoi rinunciare a quel nulla. E la fai.

E inizi ad abituarti. Ti dicono che puoi restare pure per una pisciata. Ma tu non reggi più a quelle condizioni e ti viene alla mente che i cessi pubblici tedeschi funzionano, così quelli in Australia. E che solo quelli italiani funzionano così, hanno sempre funzionato così: chi prima arriva si fa i cazzi suoi alla grande. Anche per questo ce ne sono pochi. E quelli che ci sono sono già occupati. E non vedi l’ora di uscire da quel letamaio dove hai faticato tanto a entrare. Ma qui è il bello: non ci riesci. Non ci riesci perché anche l’uscita è sottoposta a condizioni e tempi, magari si è incastrata la porta in una riforma delle latrine, oppure è stata posticipata l’uscita dai cessi a 74 anni. E anche se qui la similitudine non regge più, l’autore continua lo stesso, affidando la vis comica in questo breve periodo ad un nonsense mirato e ad una costruzione in terza persona assolutamente ridicola.

E allora continui a sudare là dentro, sperando di abituarti alla puzza. E il tempo passa. E allora cominci a pensare che non c’è speranza, per quello giovane che continua a bussare alla porta, che sta male davvero. Anche se ora tu gli lasciassi il posto, lui troverebbe una situazione insostenibile. E così non ti senti manco più in colpa per non andare via. Ormai sei abituato. È un sistema, ormai. E magari quello si è già arrangiato per cazzi suoi. E tu sei in pace con te stesso, anche per aver ricostruito una strada discorsiva credibile per la tua similitudine.

E la speranza termina quando, finalmente uscendo a riveder le stelle, ti accorgi che la fila fuori dai pochi cessi rimasti è diventata interminabile.
Ma ormai sei troppo stanco per farti carico di questo problema: lo Stato ti ha fornito di pannoloni. Certo, sono umilianti, non bastano per arrivare a metà mese e non ti slanciano certo la figura. Ma cosa vuoi fare ormai? E poi io mi preoccuperei di più per quelle espadrillas.

Magari scrivere, ecco. Ammazzare il poco tempo rimasto. Ti è sempre piaciuto scrivere. Un bel pezzo. Una similitudine magari, tra i pesci e il lavoro.

Chissà dove andrà a parare.