Un piede, una gomma, un feticista prêt-à-porter

 

Parcheggiai come tutte le mattine nello stesso punto: a quell’ora la strada era sgombra, gli operai del cementificio non avevano ancora preso possesso del viale, con le loro utilitarie tutte diverse, tutte uguali, financo al Padrepio e al rosario allo specchietto. Qualcuno azzardava un peluche, magari regalato dalla morosa che credeva ancora alla forza degli orsacchiotti e che probabilmente adesso si faceva sbattere da qualcun altro in un’auto poco dissimile. Ma a me piace pensare che fossero ancora insieme e che lei si limitasse a succhiarlo al commesso di Zara durante i turni di riposo. Sono un inguaribile romantico.
Il posto, il “mio” posto, era sul lato opposto della fermata dell’autobus. E c’erano sempre le stesse anime. La badante sovietica, talmente grossa da farti credere che da quelle parti ci si incarni in matrioske. La vecchia ultraottantenne, che non so dove cazzo andasse a quell’ora, magari al cimitero a tener compagnia ad un mucchio di ossa come le sue. O solo a prender in abitudine quelle croci. Il ragazzo di famiglia povera, che ne cambiava tre per arrivare a scuola.

Ma quella volta c’era lei. Mai vista prima. Bionda, splendida, nei suoi vent’anni ancora lontani dall’essere.
Una cosa ultraterrena.
Perché là? Un caso? L’avrei iniziata a vedere tutte le mattine? Aspettava qualcuno?
Ero immerso in domande che mi tenevano fisso su di lei. Ma più su quel piede. Dondolante. Fasciato da un paio di consunte All Star bianche come solo una poco più che diciottenne può permettersi senza sembrare una pezzente.
Cuffiette, jeans stracciati che non capivi se ci fosse più stoffa o più carne all’aria, maglione traforato giallo che manco uno Stabilo Boss, a scoprire una spalla bianchissima e di una malizia indescrivibile.
Ma quel piede.
Quel dondolio maledetto era un perverso canto d’amore, una sensuale danza erotica, un armonico trivellare nel mio ingiustificabile subbuglio ormonale.
So per certo che la Converse vive grazie a queste ragazze, altrimenti avrebbe già chiuso baracca da tempo. E che regala ad improvvisati feticisti, come mi accorsi di diventare in quel momento, attimi di pura estasi e follia testosteronica.

Lei non mi vide, ne ero certo. Non stava facendo nulla per alimentare il mio ridicolo sbavare come un cane di fronte all’osso.
Non sarei potuto scendere dall’auto senza mostrare gli effetti di quella scena sul mio jeans sofferente. Io, sofferente.
Poi la vidi dare un colpo di tosse. Ed un altro. E un altro ancora. Come se le fosse andato di traverso qualcosa – magari la gomma.
Mise entrambi i piedi a terra, destandomi dall’ipnosi da dondolio, e cominciai a vederla per quello che era: una splendida ragazza ma non un feticcio.

Ero libero. Credevo.

Continuò a tossire, sempre più forte. Le persone accanto si voltarono verso di lei. Che si alzò e poggiò una mano al vetro della pensilina, piegandosi con la testa in avanti e sempre più in basso, come a volersi liberare di qualcosa.
Sembrava stesse soffocando.
Il ragazzo le si avvicinò e le chiese se tutto andasse bene ma lei era ormai cianotica. In breve cadde a terra sulle ginocchia e tutti le furono d’attorno. Vidi un uomo prendere il telefono e chiamare qualcuno, agitandosi – forse l’ambulanza. Ma nessuno sapeva davvero cosa fare. Fu in quel momento che ebbi l’impulso di uscire dall’auto e saltare dall’altro lato della strada. Fu un attimo: spostai le persone, sollevai la ragazza e la presi da dietro. Le praticai una improvvisata manovra di Heimlich, senza neppure sapere bene se andasse fatta in quel modo. Due, tre, quattro compressioni violente e lei sputò quella cazzo di gomma – sì, ci avevo preso.
Riprese pian piano colore. La sdraiai a terra un per farla riprendere ma subito la sollevai dicendo a tutti che l’avrei portata in ospedale con la mia macchina.
Tutti si congratularono con me mentre la tenevo tra le braccia cone uno sposo la sposa.
Lei, la mia Cenerentola con le scarpine arrapanti.
La accomodai in auto e partii.
No, niente ospedale. Lei teneva gli occhi chiusi e lacrimava, e con un filo di voce mi ringraziava, continuamente.
Io non dissi nulla. Le accarezzai i capelli un paio di volte.
Guidai per una ventina di km, fino ad arrivare in piena campagna.

– Siamo arrivati.
– Eh? …Cosa?
– Siamo arrivati.
– Ma… dove? Qua non c’è niente.
– Esatto. Togli le scarpe.
– Eh?
– Le scarpe.
– Ma…
– Togli ora quelle cazzo di scarpe!

Vidi il terrore nei suoi magnifici occhioni. Non osò dire una sola altra parola. Si sfilò le scarpe senza neppure slacciarle e le lasciò di fronte a sè. Ovviamente non indossava calzini.

– Non farmi del male, ti prego.
– Tranquilla.
– No, tu vuoi violentarmi.
– Eh? Violentarti? Ma che cazzo dici?
– Ti prego, non farlo.
– Bimba, non hai capito un cazzo. Esci.
– No, mi vuoi violentare qua e poi mi ammazzi!
– Ti ho detto di uscire!

Aprì la portiera terrorizzata. Uscì e non si mosse da quella posizione.

– Chiudi la porta.
– S… sì.

La guardai per l’ultima volta, terrorizzata. E ripartii.
La vedevo dallo specchietto allontanarsi rapidamente, tra la polvere che alzavo da quella stradina arsa dal sole.

Tutto quel che desideravo era là, accanto a me.

Numero 37.

Comicità: seconda lezione

Vorrei riprendere un discorso cominciato tempo fa, circa la comicità.
Qualcuno ricorderà la mia passione per i baffi:

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martedì, marzo 23, 2010
Comicità: prima lezione.

Nella comicità ci sono precisi momenti-chiave nei quali occorre fare qualcosa per creare l’effetto risata – è noto ed intuitivo.
Il tempo è tutto.
Ma non tutto. Cosa voglio dire (oltre a manifestare un evidente bipolarità)? Che ci sono ulteriori elementi necessari per scatenare l’ilarità. Un paio di baffi, per esempio.
I baffi fanno ridere.
Ma quel che più fa ridere è pensare ai baffi.
Pensateci.
I baffi.

Dai, ora ricomponetevi.
Del resto erano solo… ahahahah!
Scusate.
Molto probabilmente questo deriva da un aggancio subcosciente, complesso ed armonico, al concetto infantile di…
No.
Un paio di grossi baffi.
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Oltre questo, c’è anche tutto un campionario di parole che – per loro stessa valenza comica – riescono a scatenare il riso. Ciò che occorre è semplicemente una decontestualizzazione.
Tra queste parole:
– Commercialista
– Citofono
– Culo
Cosa accomuna le parole summenzionate?
I più attenti avranno già notato che iniziano tutte allo stesso modo, vale a dire con “-“.
Ecco, questo intendevo con “elemento-sorpresa”.
E l’obiezione: “non si è mai parlato di elemento sorpresa” rafforza l’elemento sorpresa.
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Se dico: oggi vado dal commercialista non creo ilarità.
Se ci vado col culo di fuori già un sorriso lo tiro su.
Se poi il commercialista mi chiede come stia il mio citofono, ancora di più.
So già cosa state pensando: “E se il citofono avesse i baffi?”. Esatto, vedo che state entrando nel meccanismo.
Perché è una domanda nonsense. Come volete che stia un citofono? E’ un oggetto, Cristo Santo! Lo capite? Smettetela di chiedere del mio citofono, smettetela! Tutte le volte che scrivo di comicità, qua a chiedermi del citofono. Creando questo effetto demenziale che è uno degli elementi strutturali di un certo tipo di comicità. Ma il nonsense lo tratteremo la prossima volta, quando questo estintore smetterà di compiacersi.
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La prossima lezione parlerò di un altro elemento cardine della comicità, elemento che in questo post non è stato sviscerato perché merita uno spazio a sè: i tormentoni, vale a dire frasi o parole che in un testo o discorso ricorrono spesso, creando un effetto aspettativa che rassicura il lettore e di per sè muovono il riso. Ma di questo si tratterà la prossima volta: per oggi nessun esempio di tormentone, non mettiamo troppa carne al fuoco.

Invece, vi ho mai parlato dei baffi?
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Bene. Questo quasi tre anni fa. Il tempo vola, quando si è coscienti e vigili e non intubati ad una macchina come un vegetale.
Ecco, in quel caso il tempo non vola. Ma è difficile rendersene conto perché non si riesce a guardarsi l’orologio al polso.
Non il proprio.
Che poi, cazzo te ne fai di un orologio?
Visto? Questo è umorismo nero. E siamo arrivati alla seconda lezione.
Sì, ci metto tre anni a scriverne una, ma ho avuto da fare: mi sono allenato al lancio di cuccioli vivi nel fiume. È una specialità che sta prendendo piede anche da noi, ma per ora è limitata alla stagione estiva ed è un peccato. Ma si sa, l’Italia è sempre indietro.
Come funziona l’umorismo nero? Esattamente così: prendi un problema sociale, umano. Qualcosa che tocchi le parti più sensibili del nostro Io. Se si parla di sofferenza e dolore è perfetto. Se ci mettiamo anche elementi di coccolosità ed infermità facciamo Bingoloide. Che è un gioco nel quale puoi mettere i numeri a cazzo, tanto nessuno controlla e comunque non si capisce che numero sia uscito, se “gnenditre” o “gnendisette”.
Ecco, questo è umorismo nero e ho constatato sulla mia pelle che non è per tutti, anzi. Tante persone combattono con la furia di un crociato che ha perso la chiave della cintura di castità della moglie baldracca una guerra che sente giusta: la difesa dei deboli. Quando in realtà non capisce che non è il debole quello deriso ma l’infermità, la morte, la pochezza di questa vita. E il crociato, certo.
Abbiamo più volte toccato l’argomento, il fatto che solo scherzando liberamente su tutto si può avere davvero piena parità e considerazione di ogni essere umano e abbattimento di ogni idea di diversità. E comunque mi sono rotto le palle di dire sempre le stesse cose. Almeno fino a che non farò una guerra pure io, dopodiché potrò frantumare i coglioni a chiunque. Dando l’idea di profonda saggezza ed emanando la tipica puzza di vecchio che penso non sia altro che un mix di merda molle appena fatta e Aqua Velva.

So già cosa state pensando: “Fotte sega di questo che sto leggendo, spero solo di scopare stasera”. E la vostra ragazza già vi ha detto che esce con le amiche, dunque potete star certi che almeno una persona nella coppia farà sesso.
Insomma, in questa lezione abbiamo imparato che l’umorismo nero è qualcosa di importante a livello sociale ma soprattutto personale: serve a prendere coscienza delle brutture del mondo e a imparare a convivere con morte, malattie, solitudine, guerre e tutti gli altri doni che Dio ci sa regalare, quantomeno non impedendoli.
A proposito, se Dio esistesse gli direi che il suo peccato più grave è l’accidia.
Ma non mi risponderebbe. A conferma.

Costruire battute nere non è poi difficile. Il difficile è accettare che un ferro da calza possa ricevere più stima di un medico obiettore.
A proposito, devo ricordarmi di non gettare roba dal finestrino. L’altra volta il vigile mi ha multato e a nulla è valsa la mia rimostranza sul fatto che un feto ancora caldo non potesse essere considerato “rifiuto” tout court.
Mi sembrava offensivo per quel corpicino.

La prossima volta parleremo di comicità e giochi di parole.
Ma dovrete attendere almeno altri tre Annie.

 

 

Mi fa…

Ieri ascoltavo musica ma anche gli Spandau Ballet.
Mi fa:
– ma com’è che senti quella roba?
– ci conosciamo?
– sono tua madre
– bastava dirmi “sì”
– non dovresti usare sarcasmo con me
– bene, non lo farò
– l’hai fatto ancora
– allora smetterò da questo istante esatto
– e di nuovo ora!
– dammi tu il via allora
– ancora!

Odio mia madre.

E’ che gli anni ’80 sono irripetibili. Quantomeno nello stesso secolo.
Mi fa:
– e che ne pensi dei Nirvana?
– dai, non hanno inventato niente, è partito tutto dai Green River
– non ti facevo così esperto, nonno
– ci conosciamo?

Il nonno è così: non riconosce le persone care. La malattia poi gli impedisce anche di riconoscere noi familiari.
E comunque, che stesse male lo si capiva anche dalla confusione con le epoche musicali: i Nirvana con gli anni ’80 non c’entrano nulla, se non che sono venuti dopo. Un po’ come Little Tony con Elvis Presley.
Mi fa:
– sai che si dice?
– cosa?
– che Elvis è ancora vivo
– se è per questo lo si dice anche di John Travolta
– ma Travolta è vivo
– visto?

Che poi io Travolta lo preferisco adesso che indossa il suo contenitore.
Mi fa:
– in questi giorni si ricorda Jim Morrison
– Morrison però ha un po’ stancato
– cosa dici?! Morrison è un mito
– ma dai, cos’ha poi fatto di grande?
– a parte la foto con le ascelle?
– esatto
– anche un paio di buone canzoni
– ma pensa a quelle canzoni senza quella foto
– mi sa che hai ragione

Mi sa che anche io ho una foto al mare con le ascelle.