Provincialìzzati, Serra

serra

 

Io sono spesso d’accordo con te, Serra. “Spesso”, non “sempre”. Non lo sono quando parli di cose che si vede non ti calano. Tipo la tecnologia e le cose dei giovani, quando dimostri di non aver mai digerito il pc, quando soffri nel vedere gente che gli slogan li twitta, senza scendere in piazza con l’eskimo.

Ma va bene, non è un problema, perché poi le tue analisi politiche sono spesso condivisibili e tutto sommato le tue Amache sono condite di buon senso e abbastanza banali da consentirmi proiezione ed identificazione.

Ma sei ogni giorno più trombone. Prolisso, verboso, tronfio nella continua ricercatezza di parole come “prolisso, verboso, tronfio” (ah no, ero io).

Hai rotto il cazzo, Serra, so che mi leggi sempre, me lo ha detto Fabio Volo.

Ma sai cosa in quest’articolo mi infastidisce più di “normale trasposizione colloquiale” o “ignavia” (che non sono nulla di che, certo, ma in ascensore ti sfido ad usarle col vicino di pianerottolo, quello con la macchia di sugo)? È “Imbufalita”, Serra.

“Imbufalita” non esiste nella vita di noi mortali. Al mercato, se provo a tirare sul prezzo il fruttarolo non mi s’imbufalisce. Si rompe i coglioni, Serra.  Quando mi bloccano con un Suv di tre quarti in doppia fila io non mi imbufalisco, Serra. Io bestemmio, Serra.

“Imbufalita” è tutto quel che sei, Serra. È la fotografia esatta dell’intellettuale elegante e forbito, che gioca di stiletto e trasuda classe e odore di spezie comprate all’equo e solidale.

“Imbufalita” è una parola scritta con carta elegante e Montblanc. Writers Edition peraltro, mica una qualunque.

“Imbufalita” è l’aggettivazione “un po’ fortina” che usa lo sfigato secchione quando gli fregano la merendina e che gli consente di ricevere doverose mazzate da quelli che poi lo smutandano pure.

“Imbufalita” fa “incazzare”, Serra.

 

La vera risposta al perché ci sia sempre crisi

Era il 1997. Entrai per la prima volta da “praticante” in un’aula di tribunale. Un mondo ostile e togato (allora non si parlava ancora di “toghe rosse”, anche se c’era già stata l’ondata dipietrina e poolista e diverse monetine erano cadute dolorosamente sul vecchio regime). Ovviamente ero curiosissimo e anche pieno di aspettative: quello sarebbe stato – credevo allora – il mio mondo fino all’età della pensione.
Voi cosa avreste avuto in testa in quel momento? Dopo anni di studi tutti teorici, di codici e manuali di procedura, di storia del diritto e filosofie giuridiche. Dopo Lombroso e i suoi crani, dopo Giustiniano e i suoi codici, dopo Cossiga e le sue camicie con le maniche legate dietro, cosa vi avrebbe incuriosito in un’aula di tribunale, per la prima volta?
Beh, non conosco la vostra risposta, ma ricordo la mia: i termosifoni.
La mia attenzione fu fagocitata dai termosifoni accesi. A piena potenza che manco una caldaia di un treno dell’ottocento.
Era aprile.
Le finestre erano spalancate, c’era un sole che trascinava già al mare i primi disperati dell’abbronzatura e qualcuno azzardava il pantaloncino da tedesco.
I termosifoni accesi.
Non ricordo di cosa trattasse la causa, non riuscii a prestare attenzione ad alcunché se non a quel calore bestiale che si irradiava in quella stanza molle e sudata, maleodorante di toghe indossate per un “Rimandiamo, signor giudice” e subito dismesse da forforati parrucconi e da praticanti mignotte che mi approcciavano pensando fossi già avvocato, sperando così di ricevere una scrivania sulla quale studiare per l’esame. Sotto la quale.
I termosifoni accesi.
Credo che quei termosifoni minarono irrimediabilmente la mia passione per quella professione. Non ne fui immediatamente consapevole ma a distanza di tempo immagino siano stata la causa prima del mio fuggire dalle avvocature e cambiare decisamente vita e professione.
Rimasi oltre un’ora in quell’aula. Ogni tanto cercavo con lo sguardo le persone che si avvicinavano (e subito si facevano da parte) a quei termosifoni.
Mi chiesi il perché. Semplicemente: “perché sono accesi i termosifoni?”. E subito dopo: “perché nessuno li spegne?”.
A casa mi avevano insegnato che se esci da una stanza devi spegnere la luce, che se apri il frigorifero poi devi chiuderlo subito, che se fa freddo accendi il termosifone. E se fa caldo lo spegni.
Perché quelli erano accesi? Anzi, così tanto accesi? Chi era responsabile della loro accensione? Chi del mancato spegnimento? Perché nessuno faceva nulla?!
Iniziai a capire le basi della crisi energetica. E i motivi dei tagli alla spesa pubblica, alle pensioni, allo stato sociale. Ebbi ben chiaro, in quel preciso momento, il perché le auto della polizia non potevano circolare per mancanza di benzina, o che fine facessero i soldi dell’IVA che pagavo quando compravo un cd.
In quei termosifoni.
Tutto il buco di bilancio italiano era di fronte a me.
C’era malcostume e mezzo gaudio (mi pare fosse così il detto), menefreghismo, indolenza, malaffare, fottersene della collettività, fascismo, nazismo, genocidio, Lega Nord!
C’erano anni di racconti di vecchi pensionati che si lamentavano per la pensione troppo bassa, di allettati in ospedali con le pezze al culo (gli ospedali, non gli allettati).
C’era il mio installatore di autoradio che mi faceva la fattura dimezzata, pur installando una intera autoradio (credo fraintendesse il concetto di taglio delle frequenze).
C’era il mio meccanico e il suo farmi un prezzo, ed un secondo in nero. Lui, con le mani nere, la faccia nera, tutto nero. Era del Senegal, a dirla tutta.
Era tutto là, di fronte a me.
In quei termosifoni.
Più passava il tempo e più mi saliva l’ansia. Quella irresponsabilità mi ipnotizzava. Non riuscivo a far nulla. Non riuscivo a pensare. Sudavo, ma più per il mio continuare a girare mentalmente su quei termosifoni che per il caldo in sé.
Nessuno pareva curarsi del problema, dell’enorme, evidentissimo problema! Nessuno!
Mi sentivo come in una candid camera. Di più: in una puntata de “Ai confini della realtà”, nella quale c’è il protagonista che è l’unica persona normale e tutti gli altri fanno qualcosa di pazzesco, come girare nudi, mangiare copertoni oppure votare Casini.
Grondavo di sudore.
I termosifoni accesi.
I termosifoni accesi.
I termosifoni accesi.
E poi…
I termosifoni accesi.
I termosifoni accesi.
I termosifoni accesi.
Mi salì un’ansia ancor maggiore e stavolta incontrollata. Mi sentivo come ne “Il cuore rivelatore” di Poe: io solo sapevo, io solo vedevo, mi terrorizzava l’idea che qualcuno scoprisse il motivo del mio malessere ma al contempo non ce la facevo a restare solo con quel mostro mentale che mi divorava.
I termosifoni accesi.
I termosifoni accesi.
I termosifoni accesi.
Dovevo fare qualcosa o rischiavo di impazzire. Un gesto anche eclatante, non importa, ma ne andava della mia salute mentale.
Così, di punto in bianco, senza assolutamente pensare alle conseguenze presi la mia decisione e lo feci. Sì, senza esitare.
Mi tolsi la giacca.
In effetti andò già molto meglio.

Un referendum sull’abolizione del suffragio universale no?

Leggo che gli incerti sul voto sono il 30% degli italiani e che sceglieranno all’ultimo momento. “Incerti”. Cosa vuol dire “incerti”? Ce l’hai o no una tua cultura, una impronta, una identità di massima, no? Che non esistano più destra e sinistra è una cazzata immane: tu ti comporti in un certo modo, ti relazioni in un certo modo, pensi in un certo modo. Avrai una idea di cosa debba e non debba fare lo Stato per te, per la collettività, o no? Avrai una opinione su divorzio, famiglia, testamento biologico, rapporti con la Chiesa, o no? Saprai se un extracomunitario accanto a te in autobus ti crea problemi, o no? Saprai se ti serve un condono o se trovi questa una pratica odiosa, o no? Penserai qualcosa riguardo a scuole pubbliche e private, a finanziamenti al sociale, sanità in mano alle cliniche, o no?

O no?

Magari nessun partito ti rappresenta davvero in questo momento, ma allora la tua è comunque una certezza: quella di stare a casa. Come fai a non sapere se scegliere tra un centrodestra ed un centrosinistra? Sono entità incomparabili: tu da una parte delle due devi necessariamente pendere. Non ci credo che all’ultimo secondo metterai una croce a destra o a sinistra a seconda della simpatia che ti ispirano i colori del simbolo.

Mi vedo uno di questi incerti, andare a fare la spesa e restare là, con un flacone di Perlana in mano e un etto di prosciutto dall’altro, “incerti” su cosa scegliere.

Un piede, una gomma, un feticista prêt-à-porter

 

Parcheggiai come tutte le mattine nello stesso punto: a quell’ora la strada era sgombra, gli operai del cementificio non avevano ancora preso possesso del viale, con le loro utilitarie tutte diverse, tutte uguali, financo al Padrepio e al rosario allo specchietto. Qualcuno azzardava un peluche, magari regalato dalla morosa che credeva ancora alla forza degli orsacchiotti e che probabilmente adesso si faceva sbattere da qualcun altro in un’auto poco dissimile. Ma a me piace pensare che fossero ancora insieme e che lei si limitasse a succhiarlo al commesso di Zara durante i turni di riposo. Sono un inguaribile romantico.
Il posto, il “mio” posto, era sul lato opposto della fermata dell’autobus. E c’erano sempre le stesse anime. La badante sovietica, talmente grossa da farti credere che da quelle parti ci si incarni in matrioske. La vecchia ultraottantenne, che non so dove cazzo andasse a quell’ora, magari al cimitero a tener compagnia ad un mucchio di ossa come le sue. O solo a prender in abitudine quelle croci. Il ragazzo di famiglia povera, che ne cambiava tre per arrivare a scuola.

Ma quella volta c’era lei. Mai vista prima. Bionda, splendida, nei suoi vent’anni ancora lontani dall’essere.
Una cosa ultraterrena.
Perché là? Un caso? L’avrei iniziata a vedere tutte le mattine? Aspettava qualcuno?
Ero immerso in domande che mi tenevano fisso su di lei. Ma più su quel piede. Dondolante. Fasciato da un paio di consunte All Star bianche come solo una poco più che diciottenne può permettersi senza sembrare una pezzente.
Cuffiette, jeans stracciati che non capivi se ci fosse più stoffa o più carne all’aria, maglione traforato giallo che manco uno Stabilo Boss, a scoprire una spalla bianchissima e di una malizia indescrivibile.
Ma quel piede.
Quel dondolio maledetto era un perverso canto d’amore, una sensuale danza erotica, un armonico trivellare nel mio ingiustificabile subbuglio ormonale.
So per certo che la Converse vive grazie a queste ragazze, altrimenti avrebbe già chiuso baracca da tempo. E che regala ad improvvisati feticisti, come mi accorsi di diventare in quel momento, attimi di pura estasi e follia testosteronica.

Lei non mi vide, ne ero certo. Non stava facendo nulla per alimentare il mio ridicolo sbavare come un cane di fronte all’osso.
Non sarei potuto scendere dall’auto senza mostrare gli effetti di quella scena sul mio jeans sofferente. Io, sofferente.
Poi la vidi dare un colpo di tosse. Ed un altro. E un altro ancora. Come se le fosse andato di traverso qualcosa – magari la gomma.
Mise entrambi i piedi a terra, destandomi dall’ipnosi da dondolio, e cominciai a vederla per quello che era: una splendida ragazza ma non un feticcio.

Ero libero. Credevo.

Continuò a tossire, sempre più forte. Le persone accanto si voltarono verso di lei. Che si alzò e poggiò una mano al vetro della pensilina, piegandosi con la testa in avanti e sempre più in basso, come a volersi liberare di qualcosa.
Sembrava stesse soffocando.
Il ragazzo le si avvicinò e le chiese se tutto andasse bene ma lei era ormai cianotica. In breve cadde a terra sulle ginocchia e tutti le furono d’attorno. Vidi un uomo prendere il telefono e chiamare qualcuno, agitandosi – forse l’ambulanza. Ma nessuno sapeva davvero cosa fare. Fu in quel momento che ebbi l’impulso di uscire dall’auto e saltare dall’altro lato della strada. Fu un attimo: spostai le persone, sollevai la ragazza e la presi da dietro. Le praticai una improvvisata manovra di Heimlich, senza neppure sapere bene se andasse fatta in quel modo. Due, tre, quattro compressioni violente e lei sputò quella cazzo di gomma – sì, ci avevo preso.
Riprese pian piano colore. La sdraiai a terra un per farla riprendere ma subito la sollevai dicendo a tutti che l’avrei portata in ospedale con la mia macchina.
Tutti si congratularono con me mentre la tenevo tra le braccia cone uno sposo la sposa.
Lei, la mia Cenerentola con le scarpine arrapanti.
La accomodai in auto e partii.
No, niente ospedale. Lei teneva gli occhi chiusi e lacrimava, e con un filo di voce mi ringraziava, continuamente.
Io non dissi nulla. Le accarezzai i capelli un paio di volte.
Guidai per una ventina di km, fino ad arrivare in piena campagna.

– Siamo arrivati.
– Eh? …Cosa?
– Siamo arrivati.
– Ma… dove? Qua non c’è niente.
– Esatto. Togli le scarpe.
– Eh?
– Le scarpe.
– Ma…
– Togli ora quelle cazzo di scarpe!

Vidi il terrore nei suoi magnifici occhioni. Non osò dire una sola altra parola. Si sfilò le scarpe senza neppure slacciarle e le lasciò di fronte a sè. Ovviamente non indossava calzini.

– Non farmi del male, ti prego.
– Tranquilla.
– No, tu vuoi violentarmi.
– Eh? Violentarti? Ma che cazzo dici?
– Ti prego, non farlo.
– Bimba, non hai capito un cazzo. Esci.
– No, mi vuoi violentare qua e poi mi ammazzi!
– Ti ho detto di uscire!

Aprì la portiera terrorizzata. Uscì e non si mosse da quella posizione.

– Chiudi la porta.
– S… sì.

La guardai per l’ultima volta, terrorizzata. E ripartii.
La vedevo dallo specchietto allontanarsi rapidamente, tra la polvere che alzavo da quella stradina arsa dal sole.

Tutto quel che desideravo era là, accanto a me.

Numero 37.

Pillole di saggezza (1)

A volte mi vengono idee comiche mentre sto per addormentarmi. Allora mi alzo al mattino cercando di ricordare quelle battute brillanti ma niente, sono sparite. Ed è evidente.

Da piccolo volevo fare il benzinaio perché lo vedevo sempre con quel portafogli gonfio di soldi. Poi ho scoperto che non è che tutti quei soldi alla fine restino a lui: mi hanno spiegato che là sono solo di passaggio, che il grosso va ad altre persone. E allora mi sono messo a fare la moglie del benzinaio.

Ho notato che su Facebook è facilissimo litigare con le persone. Questo non dipende dal nostro carattere ma proprio dalla enorme facilità di interazione e dalla eccessiva mole di contatti, nonché dal fatto che la comunicazione mediata favorisce questo genCHE CAZZO STAI GUARDANDO?!

Una volta ho rischiato di investire delle pecore che attraversavano la strada. È che mentre passavano mi sono addormentato.

La mia tastiera è piena di briciole. Ogni anno la cambio perché pulirla diventa impossibile. Sembrerà uno spreco ed uno sfregio alla miseria ma quei batteri dopo un po’ iniziano a svaccare e a lasciare briciole sulla tastiera.

Nella scelta dell’automobile il fattore emozione è tutto, molto più di freddi parametri tecnici e aridi calcoli utilitaristici. Che invece hanno un ruolo fondamentale nella scelta del partner.

“I blog ormai sono morti e non li legge più nessuno”. Non ricordo dove l’ho letto, ma mi pare su Facebook.

Avete mai passato una intera giornata così, senza fare nulla, senza altri pensieri che voi stessi, a pancia in su, a vedere il cielo, immobil? Io sì. Solo molte ore dopo è arrivata l’ambulanza.

Ed è così che dovrebbero chiudersi tutte le storie d’amore

– ho bisogno di te.
– bene, almeno uno dei due.
– perché mi tratti sempre così? Non provi nulla per me?
– mai detto questo.
– allora senti qualcosa?
– neppure questo.
– non si può non provare nulla.
– ok, allora proverò a provare qualcosa.
– sei davvero un essere viscido.
– beh, umido è umido.
– perché non sei chiaro?
– ok: molto nuvoloso con piogge diffuse, temperature in lieve calo con massime tra 5 e 8°, vento nordoccidentale moderato con rinforzi da O/SO, umidità 71%.
– Dillo, se mi vuoi ancora o non mi vuoi più!
– non ti voglio più.
– ma come puoi dire questo?
– mi pareva una alternativa contemplata.
– non puoi!
– ok, allora scelgo la prima: ti voglio ancora.
– davvero amore?
– no, ma mi hai scartato l’altra.
– un bastardo! Questo solo sei! Non ti riconosco più!
– in effetti dovrei radermi.
– ma credi di far ridere qualcuno con le tue battute?
– se vuoi te le spiego.
– come puoi aver dimenticato già tutto?
– ci conosciamo?
– ecco, solo questo sai fare: ferire col tuo sarcasmo.
– riesco bene anche nel bricolage.
– la verità è che a me non hai mai tenuto davvero.
– la verità ti fa male lo so.
– non riesco mai a fare un discorso serio con te. Tutto questo mi sta allontanando.
– ma sempre a portata di sputo resti.
– basta, è finita: torno da mia madre!
– benissimo. Già che ci sei portala via da casa nostra.
– ecco, sempre a rimproverarmi di tutto. A lei fa piacere stare con noi, per questo ci viene a trovare spesso.
– non viene “spesso”.
– meno male che lo riconosci.
– è proprio stanziale.
– sempre esagerato.
– signora, lei che ne pensa?
– mia figlia merita di meglio di te, capra.
– bene.
– questo non significa nulla, e lascia stare mia madre.
– vorrei, ma mi sta impegnando la giugulare.
– è solo una dimostrazione di affetto.
– può ess..ere. So…lo n..on cap…isco la cor..da di ny..lo..n…
– mamma, ti prego, non ti ci mettere pure tu!
– io lo facevo per te, bimba mia.
– pfff… l’amore di una mamma è sempre speciale e può darti tanto, anche una condanna per omicidio.
– basta! Vado via davvero.
– vai pure. Ti chiedo solo una cosa: puoi rimettere le cose com’erano prima che venissi?
– e cioè?
– belle.

E che mi dici di Frenzi Natra?

 

“Pety Prouble”.

E lo diceva con tale sicurezza da farmi pensare che io non fossi poi tanto addentro la cultura musicale come immaginavo.
Un californiano che mi dava lezioni di musica? Assurdo.
Certo, vai a conoscere tutti i cantanti americani. Ma io questo Pety Prouble non l’avevo mai sentito.
Che poi, ma che cazzo di nome era Pety Prouble? Che genere cantava? Era uno di quei “cosi” country che raccontava storie di “Redneck” del Tennessee, tipo Randy Newman ma più sfigato? (E ho detto tutto).

– You should know Pety Prouble… She’s from your country.
– “She”? So, a woman! Ah, ok. But… My country?

Ho immediatamente riavvolto il nastro della memoria e rimandato ai Maurizio Seymandi pre e post calvizie, alle musicassette tenute nell’Alfasud arancione, ai Vittorio Salvetti, ai Cantagiro.
Niente.
Una di quelle cantanti italiane sconosciute in patria, che hanno fatto fortuna all’estero“. Questo pensai.

– She’s very famous in Italy, you betcha.
– Stop kidding me! In Italy nobody knows Pety Prouble! Nobody!
– Maybe you’re not so good in music…
– Please, sing for me, choose a Pety Prouble’s song. Please…
– Ok, I’ll try. “Two me fae jee rar, two me fae jee rar, koomi fosee oona beamboolea”…
– Fuck you.

 

Strategia del bimbo leucemico (e del pietismo semaforico)

La haine est un tonique, fait vivre et inspire vengeance. Au contraire la piété tue, affaiblit encore notre faiblesse. [Honoré de Balzac]

 

 

C’è qualcosa di più toccante di un bambino malato?
Forse un bambino più malato, che stringe un peluche. Anch’esso malato.
C’è qualcosa di più strumentale che utilizzare un bambino malato per una questione politica?
Forse una questione più politica, che stringe un peluche. Di Gasparri.
La questione IMU, sparata in questo modo, è del tutto marginale. Può essere fuori luogo che un Ente senza fine di lucro (e con 850 collaboratori in diverse sedi) sia costretto a pagare 360 mila euro di IMU, ma questa è questione politica e quel bambino malato non c’entra nulla. E’ pietismo gratuito. E non sono quei soldi a permettere a quel bimbo di guarire. Ma di più: quella tassa, discutibile quanto si voglia, non è necessariamente destinata a finanziare i SUV dei politici, quelli che “non possono capire cosa voglia dire lottare contro il cancro” (sappiate che l’immunità parlamentare prevede anche immunità alla malattia: mai nessun politico si ammala di cancro, con una capacità di estensione del populismo anche all’ambito sanitario).
Magari quei soldi possono essere girati, investiti, utilizzati per fare qualcosa di concreto e reale. Risanare un condotto idrico, comprare un Canadair, finanziare qualche mese di cassa integrazione. Per il padre del bambino della foto, che so.
Dare per scontato che i soldi delle tasse siano soldi persi è una idiozia demagogica troppo evidente per parlarne.
Dare per scontato che il Mario Negri con quei soldi avrebbe curato tanti bambini malati è una idiozia demagogica troppo evidente per parlarne.
Populismo per populismo, magari Garattini ci ristrutturava casa, che ne sai?

Immagini come queste, che su Facebook imbottiscono le bacheche di chi pensa TUTTO IN MAIUSCOLO e che pure quando fa la spesa si rivolge alla cassiera con innumerevoli punti esclamativi (ottenendo altrettanti bollini in cambio), non sono solo ridicole. Sono dannose. Perché capaci di alimentare un moto distruttivo in anime candide, prive di scudi culturali in grado di agire in loro difesa. E creano catene di Sant’Antonio, e indignazione, e “VERGOGNA!!!!1” e senso di appartenenza a gruppi di non-pensiero, animati da questo sacro fuoco della indignazione pret-a-porter.
Non sono capaci di realizzare quanto abominevole sia questa strumentalizzazione. Il bambino è sempre il bambino. Ed è malato. E i politici sono cattivi. E non lo curano. Anzi, gli prendono i soldi dalle tasche. Per pagarci le puttane. E scoparsele senza preservativo (per la summenzionata refrattarietà alle malattie).
E allora immagini di pubblica indignazione e immensa pietà.

E’ come il mutilato al semaforo, che mostra, evidenzia la sua infermità, per raccogliere più pietà di quanta già ne faccia uno costretto a relazionarsi con gente dentro una Multipla.
E’ una strategia del pietismo, una strumentalizzazione della sofferenza, una parossistica captatio benevolentiae, velenosa perché sposta il fuoco, da un problema sociale ad uno personale che nulla ha a che vedere con la questione de quo. E la questione dovrebbe essere: perché sei costretto a chiedere soldi ad un semaforo? Invece mi vuoi far sentire un fortunato, non perché io abbia il culo al caldo in un tripudio di economiche plastiche avvolgenti e climatizzate, ma perché io ho entrambe le mani e tu no. E questa è una cosa che non ha alcun senso.
Sei al semaforo perché non hai un lavoro o perché hai una mano sola? No, la questione è importante.
Non dirmi che non hai un lavoro perché hai una mano sola, sarebbe una presa per il culo per i disoccupati bimani.
Spiegami perché sei di fronte a me a chiedere soldi, dai. Motivo A o B?
Perché se è per la mano mi dai lo spunto per una riflessione: è come trovarsi di fronte Rocco Siffredi e mostrargli il proprio cazzo, per indurgli compassione e spingerlo a darci due euro.
No? E dove sbaglierei, di grazia? E’ davvero la stessa cosa.
O come chiedere a Bolt un paio di dollari perché non corriamo i 200 come lui.
Che gioco è? Mi dici qual è il tuo reale problema? E’ la mano che ti manca? Mi spiace, ma questo non dipende da me. Magari chiedi a quello rappresentato dalla croce che porti appesa. Perché dovrei risarcirti io per errori altrui?
Il problema è la mancanza di lavoro? Allora al semaforo mostrami il certificato di disoccupazione. Magari una mano (sic) te la dò volentieri.
Ma mostrarmi il moncherino no. Mi fa incazzare. Lo trovo bastardo. E se penso al disoccupato che le mani le ha entrambe ti vedo anche come un cazzo di privilegiato, perché magari tu prendi un assegno di invalidità e lui manco quello.
E poi mi infastidisce anche quella puzza di Tavernello. Che mi genera altre questioni. A partire da come tu faccia ad aprirlo con quella sola mano.
No, è una porcata, la tua. Non ti do nulla. Ricomponiti, mostrami dignità. Sorridimi invece di fare quella faccia bastonata. Non esiste che io debba tirar fuori soldi perché mi fai sentire una merda.

Il bambino nella foto mi fa sentire un bastardo. Per proiezione. Mi sento complice non solo per il fatto che lo Stato prenda soldi ad un Istituto del genere ma un po’ anche per la sua malattia.
Mi crea l’effetto mendicante-col-moncherino. Disagio, non empatia. Senza che lui, il bimbo, ne abbia consapevolezza, essendo probabilmente già morto da un pezzo.
Per colpa dell’IMU.

Non mi sorprenderei se immagini del genere le realizzasse Garattini in persona, con Paint.
Ma forse no. Il bambino avrebbe indossato un dolcevita bianco.

 

Comicità: seconda lezione

Vorrei riprendere un discorso cominciato tempo fa, circa la comicità.
Qualcuno ricorderà la mia passione per i baffi:

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martedì, marzo 23, 2010
Comicità: prima lezione.

Nella comicità ci sono precisi momenti-chiave nei quali occorre fare qualcosa per creare l’effetto risata – è noto ed intuitivo.
Il tempo è tutto.
Ma non tutto. Cosa voglio dire (oltre a manifestare un evidente bipolarità)? Che ci sono ulteriori elementi necessari per scatenare l’ilarità. Un paio di baffi, per esempio.
I baffi fanno ridere.
Ma quel che più fa ridere è pensare ai baffi.
Pensateci.
I baffi.

Dai, ora ricomponetevi.
Del resto erano solo… ahahahah!
Scusate.
Molto probabilmente questo deriva da un aggancio subcosciente, complesso ed armonico, al concetto infantile di…
No.
Un paio di grossi baffi.
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Oltre questo, c’è anche tutto un campionario di parole che – per loro stessa valenza comica – riescono a scatenare il riso. Ciò che occorre è semplicemente una decontestualizzazione.
Tra queste parole:
– Commercialista
– Citofono
– Culo
Cosa accomuna le parole summenzionate?
I più attenti avranno già notato che iniziano tutte allo stesso modo, vale a dire con “-“.
Ecco, questo intendevo con “elemento-sorpresa”.
E l’obiezione: “non si è mai parlato di elemento sorpresa” rafforza l’elemento sorpresa.
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Se dico: oggi vado dal commercialista non creo ilarità.
Se ci vado col culo di fuori già un sorriso lo tiro su.
Se poi il commercialista mi chiede come stia il mio citofono, ancora di più.
So già cosa state pensando: “E se il citofono avesse i baffi?”. Esatto, vedo che state entrando nel meccanismo.
Perché è una domanda nonsense. Come volete che stia un citofono? E’ un oggetto, Cristo Santo! Lo capite? Smettetela di chiedere del mio citofono, smettetela! Tutte le volte che scrivo di comicità, qua a chiedermi del citofono. Creando questo effetto demenziale che è uno degli elementi strutturali di un certo tipo di comicità. Ma il nonsense lo tratteremo la prossima volta, quando questo estintore smetterà di compiacersi.
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La prossima lezione parlerò di un altro elemento cardine della comicità, elemento che in questo post non è stato sviscerato perché merita uno spazio a sè: i tormentoni, vale a dire frasi o parole che in un testo o discorso ricorrono spesso, creando un effetto aspettativa che rassicura il lettore e di per sè muovono il riso. Ma di questo si tratterà la prossima volta: per oggi nessun esempio di tormentone, non mettiamo troppa carne al fuoco.

Invece, vi ho mai parlato dei baffi?
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Bene. Questo quasi tre anni fa. Il tempo vola, quando si è coscienti e vigili e non intubati ad una macchina come un vegetale.
Ecco, in quel caso il tempo non vola. Ma è difficile rendersene conto perché non si riesce a guardarsi l’orologio al polso.
Non il proprio.
Che poi, cazzo te ne fai di un orologio?
Visto? Questo è umorismo nero. E siamo arrivati alla seconda lezione.
Sì, ci metto tre anni a scriverne una, ma ho avuto da fare: mi sono allenato al lancio di cuccioli vivi nel fiume. È una specialità che sta prendendo piede anche da noi, ma per ora è limitata alla stagione estiva ed è un peccato. Ma si sa, l’Italia è sempre indietro.
Come funziona l’umorismo nero? Esattamente così: prendi un problema sociale, umano. Qualcosa che tocchi le parti più sensibili del nostro Io. Se si parla di sofferenza e dolore è perfetto. Se ci mettiamo anche elementi di coccolosità ed infermità facciamo Bingoloide. Che è un gioco nel quale puoi mettere i numeri a cazzo, tanto nessuno controlla e comunque non si capisce che numero sia uscito, se “gnenditre” o “gnendisette”.
Ecco, questo è umorismo nero e ho constatato sulla mia pelle che non è per tutti, anzi. Tante persone combattono con la furia di un crociato che ha perso la chiave della cintura di castità della moglie baldracca una guerra che sente giusta: la difesa dei deboli. Quando in realtà non capisce che non è il debole quello deriso ma l’infermità, la morte, la pochezza di questa vita. E il crociato, certo.
Abbiamo più volte toccato l’argomento, il fatto che solo scherzando liberamente su tutto si può avere davvero piena parità e considerazione di ogni essere umano e abbattimento di ogni idea di diversità. E comunque mi sono rotto le palle di dire sempre le stesse cose. Almeno fino a che non farò una guerra pure io, dopodiché potrò frantumare i coglioni a chiunque. Dando l’idea di profonda saggezza ed emanando la tipica puzza di vecchio che penso non sia altro che un mix di merda molle appena fatta e Aqua Velva.

So già cosa state pensando: “Fotte sega di questo che sto leggendo, spero solo di scopare stasera”. E la vostra ragazza già vi ha detto che esce con le amiche, dunque potete star certi che almeno una persona nella coppia farà sesso.
Insomma, in questa lezione abbiamo imparato che l’umorismo nero è qualcosa di importante a livello sociale ma soprattutto personale: serve a prendere coscienza delle brutture del mondo e a imparare a convivere con morte, malattie, solitudine, guerre e tutti gli altri doni che Dio ci sa regalare, quantomeno non impedendoli.
A proposito, se Dio esistesse gli direi che il suo peccato più grave è l’accidia.
Ma non mi risponderebbe. A conferma.

Costruire battute nere non è poi difficile. Il difficile è accettare che un ferro da calza possa ricevere più stima di un medico obiettore.
A proposito, devo ricordarmi di non gettare roba dal finestrino. L’altra volta il vigile mi ha multato e a nulla è valsa la mia rimostranza sul fatto che un feto ancora caldo non potesse essere considerato “rifiuto” tout court.
Mi sembrava offensivo per quel corpicino.

La prossima volta parleremo di comicità e giochi di parole.
Ma dovrete attendere almeno altri tre Annie.