“E ricorda che ho voluto più bene a… uguale”.

Cosa trovate più demotivante? Un rimprovero? Quando qualcuno dubita di voi? Se vien fuori che non si fidano delle vostre capacità? Altro?

Rigiro la domanda: qualcuno davvero può ritenere motivante un rimprovero? L’essere messo in discussione? L’accostamento ad un’altra persona definita “più capace”?

Con mia sorpresa qualcuno risponde di sì a questa riformulazione della domanda. Mi è stato detto che l’essere messo in discussione a volte potrebbe dare una sferzata emotiva e portare buoni risultati motivazionali.

Invero questa risposta me l’hanno data in pochi da che io ricordi: pochissimi trovano motivazione non nell’elogio ma nel rimprovero. E a dirla tutta neppure quelle eccezioni si sono poi espresse in modo radicale, precisando che è fondamentale che loro stessi trovino quel rimprovero fondato e intellettualmente onesto.

Ciascuno poi ha il proprio sentire e magari trova motivante una nuova sfida oppure confermarsi sulle vecchie, cambiare panorama (lavorativo, sentimentale) oppure mantenere il precedente. Questo è ampiamente soggettivo e capisco perfettamente che io possa essere totalmente diverso da te che mi stai leggendo. Ma nessuno mi ha mai detto che trova motivazione quando attorno a sè sente sfiducia. Qualcuno magari sul breve potrebbe trovare una controreazione ed attivarsi maggiormente, per dimostrare che gli altri si sbagliano. Ma sul medio periodo c’è bisogno poi di segnali di cambiamento, di riscontri oggettivi, di pacche sulle spalle e nuovi sorrisi.

Con me poi la cosa funziona in modo ancora più estremo: essendo personalmente molto sicuro delle mie capacità (a torto o a ragione) sono anche la persona più critica con se stessa. Dunque mi accorgo da solo se qualcosa non è corrispondente all’optimum: non c’è bisogno che tu me lo faccia notare. L’esserne cosciente è per me stimolo a fare meglio la volta successiva. Il sottolineare una volta il difetto me lo amplifica a dismisura e mi switcha in uno stato di fastidio: “non c’è bisogno che mi rimarchi questa cosa, mi sento già da solo in difetto“. Il sottolinearlo più volte ti pone in torto. Te, esatto. Torto per non aver capito che quel comportamento è controproducente. Torto per aver allungato i termini della mia “ripresa”: quando sono infastidito rendo decisamente meno. Torto perché mi stai dimostrando che sto avendo a che fare con una persona non in grado di gestire i rapporti umani. Non in grado di capire chi ha di fronte e come prenderlo.

Paradossalmente i miei errori sottolineano le carenze altrui più che le mie.

E questo non vale solo nel lavoro, dove comunque si possono ravvisare situazioni di questo tipo più spesso che in altri ambienti: è un discorso buono tra amici, in un gruppo di zitelle che gioca a bridge, durante una partita di calcetto.

– Cazzo, ma come fai la diagonale?! Dovevi chiuderlo tu quello là!

– …

– Cazzo, ma perché non passi la palla? Ero libero!

– …

– Cazzo, ma chi lo doveva marcare quello? Dov’eri con la testa?!

– … – Cazzo, ma…

– [Mi fermo in mezzo al campo, prendo il pallone in mano, mi dirigo lentamente ma con decisione verso di lui, tengo stretto il pallone, glielo porgo, lui non capisce e fa per prenderlo ma ecco che lo sorprendo sbattendoglielo sulla faccia in modo ripetuto, sfruttando le peculiarità del terzo principio della dinamica e dunque faticando anche meno rispetto ad uno che fisica non l’ha studiata].

Da ragazzino ero bravissimo in francese. Dal primo giorno – prima ancora che sapessi una sola frocissima parola in quella lingua. Questo perché la professoressa fece il suo giro di conoscenza e chiese a tutti noi di ripetere una frase da lei pronunciata: questo facemmo, con tutti i limiti del caso. E quando fu il mio turno ricordo di aver provato, essermi impegnato, nel riprodurre quella pronuncia, con la massima attenzione, dedizione possibile. Il risultato non penso potesse essere entusiasmante ma quella donna ebbe l’intelligenza di dirmi: “Bravissimo, si vede che sei portato. Sono certa che imparerai il francese prestissimo“. Non ci credeva. Ma fu altamente motivante. Era la pacca sulla spalla, il complimento aprioristico, il sorriso: non importa se di ipocrita incoraggiamento o di apprezzamento. Mai fece l’errore di demotivarmi, di mettermi a paragone con altri in classe. E questo anche con gli altri: eravamo tutti diversi. E anche i ciucci non venivano mai mortificati. Ripresi per gli errori sempre, ma col fine puramente educativo. Glielo riconoscevamo. In primis quelli che gli errori commettevano. E c’era un sorriso per tutti.

Quante professoresse di francese avete incontrato nella vostra vita? Quante ne vorreste incontrare? A me manca gente così.

Mi manca quel modo di intendere i rapporti con le persone e quella capacità di saper tirare fuori il meglio da chiunque. Manca il suo farmi sentire “speciale”, la sua forza nel prevenire i miei errori (sono diventato davvero bravo poi) grazie al solo fatto di trasmettermi fiducia e creare aspettative che non potevo deludere. Non volevo deludere. Manca il suo sapersi mettere da parte come ruolo istituzionale e supportarmi totalmente come ruolo motivazionale.

Le poche persone che hanno saputo “essere la mia prof di francese” hanno ottenuto grandi risultati. Loro. Da me.

E compatisco chi ancora pensa che la frusta faccia più tirare il carro a Varenne.

Quella funziona con gli asini, che parlano un pessimo francese e manco fanno una diagonale.

E comunque anche loro tirano di più solo per poco.

Poi scalciano.