Una volta eri meglio

Prima ancora che andassero di moda gli RSS leggevo tutti i giorni certi blog: avevo i miei Preferiti e spulciavo a manella le pagine di mio interesse. Molti di quei blog ci sono ancora, altri hanno cambiato qualcosa, altri ancora sono spariti (paulthewineguy su tutti ed è stato un peccato – dicono).

Oggi ho ritrovato il mio vecchio file dei Preferiti di qualche anno fa*. E mi sono divertito a cercare di capire le dinamiche di abbandono di lettura di un blog. Perché – mi sono chiesto – ad un certo punto smetti di seguire un sito che fino a ieri rappresentava per te una tappa quotidiana fissa? E mi sono dato delle risposte.

A volte – credo – dipende da semplici coincidenze: si scopre un nuovo blog e ci si fissa su questo. Passano i giorni e se ne trovano altri e i Preferiti cominciano a scalare, spostando nel dimenticatoio i più vecchi.

Ma anche un semplice errore, una non voluta cancellazione del link per esempio può portare ad abbandonare quella lettura.

Oppure ancora ci si rompe semplicemente il cazzo di come scrive quel blogger. Questo capita soprattutto con quelli che hanno sempre lo stesso stile, quello che  anni prima ti faceva impazzire ma che ora ha semplicemente fatto l’acido. Voglio dire: scopare la tua ragazza, con la quale stai da quattro anni, è anche piacevole ma vuoi mettere (dentro) una new entry, che magari non è neppure meglio della tua ma ha l’enorme vantaggio di essere semplicemente “un’altra”? Cambiare è nella logica delle cose, un naturale anelito umano verso nuovi orizzonti che si schiudono, aprendo subitanei ed improbabili agganci di mediocre poetica.

Insomma, la diversità è un valore, va coltivata e tu non puoi farmi sempre lo stesso post, con lo stesso stile: so già i tuoi meccanismi, i tuoi tempi, ti conosco. Magari sei bravo eh, anzi: bravissimo. Come scrivi tu non scrive nessuno in quel modo quel tipo di cose… ma a maggior ragione: semplicemente basta. Se voglio rivivere dei deja vu mi guardo Sanremo. Anche i tuoi commentatori, che pendono dalle tua labbra e non attendono altro che il tuo ciclostilato scoreggino web per darti del “genio” o qualcosa del genere… ma non ti hanno tranciato lo scroto? La domanda che mi sorge allora è: il tuo è uno stile ben definito o più semplicemente è l’unico stile che puoi permetterti? Perché a questo punto mi sorge il dubbio che tu sia uno di quelli dotati-limitati, che se sei dirigente d’azienda di successo, a pranzo parli della tua azienda di successo, o se sei brillante ricercatore fisico-nucleare non hai mai sentito parlare di Pupo. Cantami “Su di noi”!, Adesso!

Su di noi ci avresti scommesso tu

su di noi mi vendi un sorriso tu

se lo vuoi cantare, sognare, sperare così.

Su di noi gli amici dicevano no,

vedrai,

è tutto sbagliato.

Uff… non la sai, lo sapevo.

Un altro dei motivi di abbandono della lettura di un blog però può essere non il radicamento su medesimi stili di scrittura ma semplicemente l’esaurimento della vena dell’autore. Tout court, ad un certo punto cominci a scrivere cose pallose, non sei più interessante come una volta e mi fai dire: “Cazzo, cosa t’è successo?“.

Devo dire che ci sono rimasto molto male con un blogger in particolare che leggevo sempre con grande divertimento: Chinaski. Suoi vecchi post li ritengo a tutt’oggi esempi di somma ironia. Chinaski era nella mia personale top ten ma ad un certo punto sono apparsi all’orizzonte altri blog e per un po’ l’ho perso di vista. Mi sono ritrovato oggi a tornare su quelle pagine e leggere l’ultimo post. Il mio sopracciglio destro si è inarcato, richiamando movenze ancelottiane. Ho scorso un po’ la pagina, alla ricerca di altri post e niente: sempre la stessa espressione. Forse col tempo si è perso dietro altre cose, cura meno il suo blog o semplicemente ha dei figli che gli tirano la giacca mentre scrive. Fatto sta che oggi lo trovo semplicemente noioso.

Su di noi nemmeno una nuvola

su di noi l’amore è una favola

su di noi se tu vuoi volare lontano dal mondo,

portati dal vento

non chiedermi dove si va.

Noi due respirando

lo stesso momento

per fare l’amore qua e là.

Cristo, ma non sentite che pathos?!

E subito mi è venuto da pensare a me, al fatto che questa mia obiezione – l’essere arrivato a noia – potrebbe validamente essere mossa anche alle mie, di cose. Presumo infatti che questo ragionamento valga un po’ per tutti – probabilmente in molti mi hanno lasciato per lo stesso motivo.

Allora mi sono fermato a riflettere e ho anche proceduto ad una analisi più approfondita dei miei scritti, confrontandoli con quelli più datati per cercare eventuali cali nella fluidità, nel potenziale interesse o divertimento in grado di suscitare. Una autocritica seria, il più possibile obiettiva e portata avanti col solo fine di fornire sempre un prodotto in grado di catturare l’attenzione del lettore.

E posso ora affermare con un certo grado di sicurezza che nonostante fisiologici alti e bassi e altrettanto naturali cambiamenti dell’impianto narrativo, chi ha abbandonato la lettura delle mie pagine è davvero un coglione che non ha capito un cazzo della vita e deve solo morire malissimo e si merita Lia Celi, Vergassola, Colorado Cafè e andate tutti affanculo, vi odio, vi odio!

Ma il mio giudizio – lo riconosco – potrebbe non essere completamente asettico.

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*Non è vero ma serviva per l’aggancio a questa narrazione.

 

Finché non mi cacciano (52)

A tre mesi dall’insediamento dell’esecutivo Monti, su governo.it è stato pubblicato un dossier di 34 pagine su quanto messo in atto dal governo in questo periodo: “Patrimoniale manco per cazzo“, in corpo Arial 72.

[Su L’Unità, qui]

L’immagine potrebbe non essere rappresentativa

Primo fotogramma di un porno scaricato da Emule. Lei fingerà.

– Ciao Franco, da quanto non ci vediamo?
– Da parecchio, visto che non ti conosco.
– Non essere sempre così disfattista, Franco.
– Non lo sarei, se magari non mi chiamassi Franco.
– Scusa, scusa… pensavo fosse il tuo nome.
– Ma in base a cosa?
– Bah, non so, fisionomia?
– Vuoi dire che assegni un nome alla gente sulla base della faccia che ha?
– Beh no, non proprio. Deve esserci comunque un inquadramento nel calendario. Altrimenti per me tu saresti Trompezio Bulgaro Decimonono. Ma sul calendario quello che più si avvicina a questo nome è Franco.
– Senti, fatti curare, devo andare.
– Era voluta?
– Cosa?
– La rima.
– Che rima? Sei completamente pazzo.
– Ti piace la mia nuova ragazza?
– Quello è un comodino.
– Non saltiamo subito a conclusioni adesso.
– Stai andando in giro con un comodino sulle spalle, e questo già la dice lunga.
– Ci sono affezionato. E poi non mi pareva il caso di lasciarlo solo in casa.
– Cosa vuoi che accada ad un comodino?
– Boh, io so di strane cose che accadono ai comò: civette, dottori, rapporti sessuali… cosa ne vuoi sapere se queste cose non si trasmettano pure ai comodini.
– Oddiosanto! Mi vuoi lasciare in pace?
– Chiedo scusa. E’ che mi sento solo.
– Non è una buona ragione per andare in giro ad importunare la gente.
– E qual è una buona ragione per farlo?
– Nessuna!
– Allora era un trabochetto!
– Ma quale trabocchetto!
– Possiamo rivederci domani?
– Ma neanche per sogno!
– Va bene. Ciao Daniele.
– Uh… cosa ne sai che mi chiamo Daniele?
– E’ che dalla fisionomia…
– Ma non era “Franco” dalla fisionomia?
– Allora lo vedi che lo sai anche tu!

Mistress

Qualche anno fa cominciò a circolare con più insistenza la parola “stress”. Andava a sostituire/integrare nel comune italico vocabolario il più tendente al patologico “esaurimento/esaurimento nervoso”.

Stress connotava una situazione di pressione, esterna o interna, tale da portare un certo grado di disagio psichico alla persona.

Pian piano – come spesso accade – l’uso divenne abuso e “stress” iniziò a definire anche situazioni di generico disagio emotivo, non importa quale fosse il grado.

Questa apparentemente innocua parola è poi entrata di fatto all’interno dell’uso comune e dell’intercalare stradarolo, ma anche in ambito burocratico, per quell’insopprimibile esigenza tricolore di inquadrare ogni fenomenologia in commi o circolari. “Se c’è timbro c’è speranza“, dovrebbero mettere in ogni ufficio pubblico.

Ciascuno di noi conosce situazioni di stress: sono parte della nostra vita e le solite menate. Per questo valenti professionisti che fino a ieri ti infilavano il piede nella porta per mollarti il Folletto si sono oggi riciclati docenti di corsi di gestione dello stress. In questi dovrebbero trasmettere agli stressati allievi le tecniche di controllo di questa emotività negativa e trasformarla altresì in flusso di propositiva e benefica energia. Insomma, prendi una cosa brutta e la fai diventare utile, un po’ come si fa col letame che diventa biogas in grado di muovere auto decisamente di merda.

Il punto è che la gestione dello stress è caratteristica richiesta non a tutti, nè allo stesso livello. Ci sono persone che, per ruolo sociale, per professione, per opportunità devono gestire totalmente lo stress. Ad altre non è richiesto un tale livello di attenzione. Altre ancora possono tranquillamente fottersene della gestione dello stress.
Pensate ad un chiururgo in una zona di guerra. Dovrà necessariamente saper gestire situazioni di enorme pressione, squassi emotivi, tempi ristretti. Ma senza arrivare ai casi-limite, pensate ad un dirigente d’azienda che gestisca risorse umane. Avrà il delicato compito di valorizzarle e metterle nelle condizioni per far sì che possano rendere al meglio, al netto di proprie contingenti tensioni personali, notizie negative, divergenze relazionali: alzarsi coi coglioni girati non è una patente per crocifiggere i sottoposti in sala mensa. Magari se ti chiami “Ugo”, ma sono eccezioni.

O un giudice, al quale è richiesto il “silenzio dell’anima” nel momento in cui valuta un caso. Se entra in aula incazzato come un cervo a primavera perché il giorno prima la sua domestica filippina gli ha bruciato la toga sarà per lui vitale gestire il suo personale stress e non tramutarlo in mesi di detenzione per l’imputato di turno. Magari anch’egli filippino (ma devi essere sfigato, Cristo!).

Un dipendente non ha la stessa pressante esigenza di gestire lo stress che ha invece il suo datore di lavoro: gli sarà utile, certo, per il suo benessere mentale, per la facilitazione dei rapporti e per non rendere la propria giornata lavorativa un inferno 9.00-13.00, 15.00-19.00, ma pare evidente come siano differenti le “responsabilità sociali da ruolo” e le conseguenze, nell’un caso e nell’altro, di una cattiva gestione delle tensioni interne.

Ora però pensate a mio nonno. Ha 91 anni, è lucidissimo, legge Libero, si incontra con suoi coetanei che parlano solo di pensione e patologie prostatiche, tutti i giorni segue Forum e il Tg4 e non dispone più di patente di guida nè la mancanza di mutande su Belen gli ricorda alcunché. L’esposizione costante a questi impulsi negativi lo rende aggressivo come un pitbull di fronte ad uno specchio a forma di pitbull. Ma – è qui il “ma” – a lui non è richiesta alcuna gestione dello stress. Tutt’altro. Il suo ruolo sociale lo prevede come portatore di mugugni e sbraghi continui. La sua cifra stilistica si colora di invettive contro santi ai più sconosciuti. La sua stessa esistenza in vita è dimostrabile prevalentemente attraverso le gratuite offese alla nuora e i ceffoni ai nipotini.

La gestione dello stress non è dunque un must, un punto di arrivo per chiunque.

Dunque piantala di inviarmi inviti al tuo incontro “Gestire lo stress oggi, un imperativo categorico per tutti“: mi metti pressione, mi crea ansia.
Mi stressa. Ed io non ho bisogno di gestire troppo lo stress.

E so dove abiti.

Confuso. E’ felice?

Mi sveglio tutto bagnato. Devo trovare un posto per la notte lontano dalla cabina doccia. O ripararla. Anche solo spostarsi un po’: contare sulla fase REM si è dimostrato fallimentare. Guadagno però del tempo sull’igiene personale e passo direttamente alla colazione. Non prendo caffè al mattino: la caffeina mi rende nervoso e quest’intolleranza mi rende nervoso. Dunque ripiego sulle fette biscottate. Ma non ci stanno nella tazzina. E comunque lo zucchero non ci si scioglie bene. Insomma, digiuno come al solito e esco. E’ domenica e non lavoro. In realtà sono disoccupato e non lavoro mai ma la domenica la cosa acquista un senso diverso. Tanto che comincia a salirmi l’ansia man mano che passano le ore e si avvicina il lunedi. Compro il giornale ma ci trovo sempre le notizie del giorno prima. Penso che sarebbe bello trovarci invece cose del giorno dopo ma mi rendo conto che costerebbe di più. Mi arriva un sms: “ti aspetto questa sera, a casa mia. Ho una gran voglia di te. La tua Miciona“. Cerco di capire come abbia fatto un grosso gatto a digitare un sms ma non me lo spiego. A meno che non disponga di mani. Mi creo tutto un film con questo gatto con le mani e penso possa a questo punto essere lo stesso gatto mutante che in altre storie indossa stivali quando realizzo che “Miciona” possa essere solo uno pseudonimo. Ma mi piaceva di più la cosa del gatto prensile. Cerco di risalire alla fonte dell’sms ma appare solo il numero e non il nome. Mi scervello per ore nel cercare di capire chi sia: non posso certo comporre quel numero e chiedere: “scusa Miciona, chi sei?“, farei una figura pessima. Ma ecco il colpo di genio: vado a chiederlo a quello al quale ho fregato il cellulare: sono certo che mi potrà aiutare.

Niente. Inoltre ora non ho più il cellulare. Vado a bere qualcosa in un bar. Prendo un caffè sovrappensiero e mi innervosisco tantissimo, non per la caffeina ma per il mio tardivo rendermi conto di non essere affatto intollerante alla stessa. Mi arriva un altro sms, stavolta sul mio cellulare: “dove cazzo sei?“. E’ mia moglie che mi aspetta a casa, incazzatissima perché dovevamo andare dai suoi. Solo in quel momento ricordo chiaramente tutto: sono evidentemente sposato e i suoi genitori sono ancora in vita. A dimostrazione che è vero che le disgrazie non vengono mai da sole. Devo chiedere il divorzio prima o poi ma detto così pare brutto. Mi si è staccato anche l’Algasiv. E mi ritrovo con la dentiera in mano.

Tutto sta ora a capire di chi sia.

 

Finché non mi cacciano (51)

“Roma sta reagendo bene, quando siamo avvertiti per tempo sappiamo organizzarci“, afferma polemicamente Gianni Alemanno, al quale stavolta sono stati inviati calendari con la parola “Inverno” scritta bella grande.
[Su L’Unità, qui]

No one here gets out alive

Vivi la vita attimo per attimo
perché ogni attimo potrebbe essere l’ultimo.
Vivi ogni attimo e questo non sarà mai l’ultimo.
Vivi ogni giorno della tua vita come se fosse l’ultimo
perché il giorno che lo sarà non avrai voglia di crederlo.
(Jim Morrison)

Beh, come non essere d’accordo?
Tutti sappiamo per certo che il nostro tempo è limitato, che ben che vada finiremo comunque sotto un metro e mezzo di terra. Dunque il consiglio del buon Morrison dovrebbe essere il nostro pane quotidiano.
Anzi, manco servirebbe ricordarlo.
Ok.

Che stai facendo in questo momento?
Hai un mouse in mano.
O un telefonino, un portatile, un aggeggio qualunque: non certo Madalina Ghenea.

Se questo fosse il tuo ultimo giorno cosa faresti? Dubito staresti a cazzeggiare su Internet.
Magari usciresti.
Magari andresti da chi ti sta più sui coglioni a prenderlo a calci in culo.
Magari ti suicideresti.
O busseresti alla porta della tua vicina di casa, quella ragazzina tanto carina e sorridente, e senza dirle niente glielo metteresti in mano, accompagnandolo da qualche frase convincente tipo: “Presto!”.

La verità è che Morrison era un coglione.
Nè più nè meno che te, me.
Anzi, forse lui di più dato che è già morto, perdendo il suo tempo a cercare frasi ad effetto che poi sarebbero state citate in lungo e in largo, per triturare la minchia delle generazioni a venire, le stesse che quelle frasi avrebbero trovato fantastiche tanto quanto fuffosi gattini in bacheca su un Facebook ancora inesistente.

Nessuno vive ogni istante come se fosse l’ultimo: l’uomo non è programmato per questo.
Può farlo per brevi istanti – magari in grado di cambiare davvero la vita, certo – per poi tornare alla sua rassicurante quotidianità.
Perché dubito che tu andresti al lavoro se questo fosse il tuo ultimo giorno.
A meno che tu non faccia il pornostar.
Ma nemmeno in quel caso, dai.
Non so.
In ogni caso non perderesti tempo a verificare il certificato HIV.

Piantala di fare il ribelle, l’alternativo: hai un IPhone, a Natale pranzi coi tuoi, guardi il meteo, ti masturbi sugli Scottex Gran Rotolo. Ma secondo te, se questo fosse il tuo ultimo giorno, presteresti tanta attenzione a come non disperdere nell’ambiente il tuo miserabile seme? E comunque si tratta del momento antiambientalista più grave della tua giornata: tutta quella carta per un innocuo schizzetto, pensaci.

Vivere ogni istante come fosse l’ultimo porterebbe troppa autoresponsabilizzazione e caricherebbe ogni fottuto momento in modo insostenibile per un misero essere umano.

Dunque vivi ogni istante come cazzo ti pare.
Anche Morrison sapeva di sparare solo boiate: ti sei mai chiesto perché non c’è in giro una sua cazzo di foto sorridente?