God save the queen

Provare insieme un senso di totale imbarazzo e assoluta impotenza nell’uscire da una situazione che ti si costruisce addosso in un istante.

Sabato sera.
Un caro amico, F., che gestisce un service (allestisce audio e luci nei locali), intorno a mezzanotte mi chiama e mi chiede se possa andare a dargli una mano per smontare l’impianto, in modo più tardi da andarci a prendere qualcosa da bere in altro locale, anch’esso con altri impianti da smontare. Ovviamente c’è da dare una mano ad un amico e si va.
Insieme a me altro amico comune, M.: in tre ce la caveremo rapidamente.
Arriviamo: è una bolgia assoluta. Attorno a noi centinaia di svestitissime ragazze che ballano. Nostro compito è togliere attrezzature utilizzate per chi si era esibito poco prima dal vivo, niente di che.

– Oh, ma possiamo restare qua, no?
– Eh, magari. Ma c’è da andare presso ****** per smontare altra roba.
– Ma qui è un paradiso di gnocca!
– Vedrai che anche di là…
– Ok.

Tempo venti minuti e arriviamo da ******.
Proviamo a chiamare S., l’altro responsabile del service che ci aspettava. Niente, non risponde.
Comunque, le premesse sono anche migliori delle precedenti: dal parcheggio auto, le ampie vetrate del locale al primo piano svelano stanghe chilometriche agitarsi su invisibili ed altissimi cubi.
I buttafuori ci riconoscono e ci fanno entrare.
Appena dentro riproviamo a chiamare S., ma niente.
Due ragazzi si tengono per mano.
F. si gira verso di noi con una espressione a comunicare l’articolato concetto: “froci”, comunque privo di qualunque intento discriminatorio o giudizio etico.
Ma ecco che un metro più in là altri due ragazzi, che si baciano.
F. si volta con una espressione che stavolta pare dire: “ammazza quanti froci“. Annuiamo.
Dalle scalette intanto scendono tre ragazzi, evidentemente brilli, che ridono e… si accarezzano.
A questo punto iniziano i dubbi.
Saliamo e vediamo la stanga in tubino bianco sul cubo che si intravedeva dal parcheggio.
Ecco, non è sul cubo. E’ alta due metri e dieci. Reali. Senza tacchi.
Inoltre non è bionda naturale: indossa una parrucca.
Ultima notazione: è un uomo.
E attorno altri uomini, con tacchi a spillo, latex, gonne inguinali, trucco.
Siamo capitati in una festa gay.

Chi mi conosce sa che non solo non nutro alcun tipo di pregiudizio, ma davvero sono talmente aperto di vedute da essere stato tacciato io stesso di omosessualità latente per avere diversi amici gay. Non mi sono mai sentito offeso perché l’essere gay non significa assolutamente nulla. Non è una patente che ti distingua in alcunchè. Ritengo semplicemente ridicolo discriminare qualcuno per i propri gusti sessuali. Ridicolo l’offenderli. Ridicolo usare infantili epiteti.
E’ semplicemente che avevo ben altre aspettative sulla conclusione della serata, diciamo così.
Invece mi trovo in mezzo a froci del cazzo.

Comunque.
C’è il ricchione del Grande Fratello che viene intervistato da una troupe televisiva.
I progetti di sesso orgiastico crollano. Comunque si è là per un lavoro, si fa e si va via.
Ma ecco che arriva S. che ci informa che la cosa si prolunga più del previsto. Non si può smontare nulla per un bel po’ ancora. Le alternative sono di restare a tempo indeterminato o andar via e poi tornare. Il dilemma non è da poco: siamo in una bolgia infernale, in ogni senso. Proviamo ad accomodarci sui divanetti per qualche minuto ma riceviamo insistite occhiate, un paio di inviti e lancio di baci.
Alla prima bottiglia di prosecco offertaci da quelli che sembravano i fratelli zippati degli Scissor Sisters reagiamo cercando di diffondere inequivocabili segnali di virilità, ma il ruttare viene coperto dalla musica a palla, grattarsi il culo pare più un segnale di richiamo e tenere collo e polsi rigidi non sembra dare gli sperati risultati.
Tra l’altro io indosso anche una sciarpetta identica a quella di un mulatto in canotta rosa. Che lo nota e mi fa ciao con la manina.
Pensiamo sia arrivato il momento di andare via ma ecco, il dramma.
Davanti a me un ragazzo, che riconosco: da piccoli si giocava assieme e tutti lo prendevano per il culo per i suoi modi effemminati (da ragazzi si è così, si sa).
Il suo è uno sguardo a metà tra il sorpreso e il compiaciuto. Con un’occhiata mi ha chiaramente comunicato questa frase:
“Ma bene! Eccolo qua. Il supermacho, quello che per anni mi ha rotto il cazzo con la mia omosessualità. E insieme a due altri bei maschioni. Vergognati! Per tutte le cose che mi hai detto! Sei una merda! Ipocrita, falso, frocio!”.

E anche ricorrendo a tutta la mia capacità espressiva, pur riportando alla mente centinaia di film, di volti di attori, di momenti comunicativi tra i più vari che la mia mente potesse ricordare, non sono riuscito a trovare una faccia che comunicasse tutto insieme un: “No! Non è come pensi! Sono qui per smontare impianti audio, nonostante possa sembrare che…”.

Fino a “No! Non è come pensi!” ci sarei anche riuscito. “Impianti audio” mi veniva davvero male, ma penso pure ad Al Pacino.

Insomma, mi sono arreso all’evidenza. Abbassato il capo ed accettato si compisse il mio destino.

E pure il mesto saluto fatto alla tv, con espressione di chi percorre il Miglio Verde, a quel punto mi è sembrato doveroso.