Splat (ter).

Un grosso, veramente grosso, ma davvero grosso insetto ha deciso di porre fine alla sua effimera esistenza contro la visiera del mio casco. Così.
Era depresso? Ne aveva provato a ronzare con la famiglia o con uno bravo? E’ stato solo un incidente? Non lo sapremo mai. Nessuno studio Aperto ne parlerà, non essendoci familiari a cui porre allegre domande.

Comunque: non ha trovato scampo, non disponendo di aggeggi tecnologici come cinture pretensionate o airbag. Forse i laterali.
Neppure poteva fare affidamento su un santino di Padre Pio, data l’assenza di un cruscottino sul quale collocarlo. In ogni caso sarebbe stato difficile trovare una cazzo di calamita così piccola.
In ogni caso ha lasciato una verde, fosforescente, spugnosa (come pensate che facciano a rendere così cremoso il sapone?) sostanza sul mio casco.

Mentre viaggiavo con visibilità ridotta (ma molto stile LSD) pensavo a quell’insetto, alla sua vita balorda. E alla sua fine ancor più idiota. Terminare il suo ciclo vitale, magari di poche settimane, giorni – chissà – contro un oggetto a lui del tutto sconosciuto ed incomprensibile: me.
Peggio: contro un manufatto dell’uomo: una visiera.
L’insetto spugnoso, che in sè non manterrà idea alcuna della vita e della morte, men che meno sarà a conoscenza delle normative stradali (gli insetti hanno serissime difficoltà con le regole scritte) ha terminato istantaneamente di pulsare la sua verde linfa nel suo minuscolo e rudimentale apparato. Contro un pezzo di plastica probabilmente realizzato da un operaio di Pattaya (sul casco c’è scritto made in Thailandia).

E allora il mio pensiero è volato (sic!) non più all’insetto ma a quell’operaio. Che, ignaro di tutto quel che sarebbe accaduto di lì a qualche tempo, s’è trovato ad essere remoto punto di contatto tra me ed un esserino volante.

Me lo vedo, il buon Chandal Panyarachun, alla 21.174esima visiera montata nel suo turno, sottopagato, vessato da uno caporaletto uguale a lui ma solo meno sudato, con 42 gradi all’ombra ed una umidità del 100% – come indossare la maschera del Gabibbo dopo averla immersa in salsa di soia – imprecare tra sè e sè, chiedersi il senso della vita, desiderare di farla finita per poi essere improvvisamente riportato col pensiero alla realtà da un coloratissimo insetto che si poggia sul suo banco di lavoro.

E partire di pura rabbia, schiacciarlo senza pietà, senza ragione. E proprio con quella merdosissima visiera che si ritrova tra le mani.

La mia.