Ma di che cazzo stai parlando?

Hai un potere e lo eserciti.
Qual è il limite?
Quando devi sentirti in difetto per averne abusato?
E chi stabilisce il superamento di un etereo e mai misurabile limite?
Esiste poi, questo limite?
Sono pronte le pizze?
Si può sentire disagio per quel che si è intimamente, quello per cui si è nati? Si può legittimanente sopportare una sorta di immanente rimprovero sibilante, continuo petulante grillo parlante de’ noantri?
Ad un certo punto scatta qualcosa, in testa ad un uomo, pure se di Robespierre ha solo il nome.
Ti rendi conto che ti sei davvero rotto il cazzo di sentirti sbagliato. O diverso. E cominci ad analizzare se poi tu lo sia davvero. O se siano invece tutti gli altri ad essere sbagliati. Tutti. Tutti loro. I diversi. Un’apologetica massificazione della diversità, che non provoca comunque normalizzazione alcuna. Anzi.
Tu, per cosa sei nato? Lavorare in un panificio? Ammazzare a pagamento? Vendere il piacere? Drogarti? Ce l’avrai una strada, questa casa non è un albergo. Ti senti in difetto se la tua missione non rientra tra quelle socialmente apprezzabili? Che significa “socialmente apprezzabile”? La ritieni una frase “socialmente apprezzabile”? L’etica degli altri è la tua? L’etica, esiste?
Hai una perenne vocina nell’orecchio che ti rimprovera? Ce l’abbiamo tutti, dicono. Per alcuni si chiama “moglie”. Altri invece la identificano con “coscienza”. La seconda non ti chiede di pranzare coi suoceri.
Ma.
Se quella vocina proprio non la senti? Voglio dire: se non ce l’hai davvero? Se la tua opera di autoanalisi l’ha davvero annientata? Se a cena con un amico ti senti ripetere all’ossessione che quel che stai facendo è sbagliato e tu sei assolutamente convinto che il tuo amico non capisca un cazzo, tout court? Che non abbia intrapreso quel tuo percorso, sofferto anche, che ti ha liberato della dicotomia ON/OFF e ti ha condotto ad un civilissimo alternarsi e confondersi di stati Yin e Yang in salsa agrodolce?
‘sti cinesi avranno pure inventato qualcosa di buono, no? E non sono certo queste scarpe che mi stingono tutte le sere sui piedi.
Dopo un po’ manco gli rispondi più. Perchè sei andato oltre, ti sei ormai posto in una condizione di privilegio e il concetto di “sbagliato” lo fai appartenere davvero ad un mondo non più tuo.
Non sono più sbagliato di te che mi stai dicendo che sbaglio. “Sbagliare” lo trovo in sè sbagliato (in un’altra vita ero un paradosso, sapete? Tanto da non aver mai vissuto un’altra vita).
Il mio sbagliare, “socialmente inaccettabile”, è solo nel frinire di te, grillo.
Io reo di cosa? Se hai un potere reale, e ne trai beneficio, hai un dovere universale e categorico di fermarti prima di…? Di cosa? Soprattutto se chi è investito delle conseguenze del tuo potere sono le stesse persone che tale potere amano. A quel punto?
Ecco che entrano in gioco “gli altri”, “le comari”. A ricordarti che no, non si fa. Che devi gestire meglio. Che sei pericoloso.
Pericoloso.
Ma per chi?
Cosa dovrei fare? Limitare me stesso per venire incontro a voi, chiocciame?
Concedervi tregua e un confronto meno impietoso? Ma soprattutto: fermarmi è quel che vuole la mia “vittima”? Darle una via d’uscita? Ho imparato che no, non lo desidera. Mai.
E poi: la mia, di gratificazione? Il mio snaturarmi (perchè questo sarebbe) che contropartita prevede? Cosa me ne viene? Il mettersi a tacere della vocina interiore? Ripeto: manca. L’acquetarsi del ciacolìo di voi comari? Bah. E allora si fottano tutti. Fottetevi voi. Vi fotto io, anzi. E discorsi come questo rappresentano l’ennesima farneticazione d’una superflua presa di coscienza di un problema.
Tutto vostro.