Ma che colpa abbiamo noi

La sveglia alla solita ora, colazione, lavoro.

Otto ore.

Otto ore per riportare a casa soldi necessari per comprare una nuova sveglia – magari funzionante stavolta – che mi permetta di alzarmi in tempo per andare al lavoro.

Otto ore per riportare a casa soldi necessari per mantenere un’auto che mi permetta di raggiungere il posto di lavoro.

Otto ore necessarie a riportare a casa soldi necessari per comprare cibo necessario a sostenermi per le attività fisiche necessarie di una palestra necessaria a mantenere una forma necessaria che otto ore sul posto di lavoro necessariamente massacrano.

Otto ore per acquistare un televisore al quale pongo le mie riflessioni circa le otto ore di lavoro necessarie ad acquistare quello stesso televisore che in quel momento rimane spento. Ma pare stare là a fissarti dalla lucina rossa – quella sì accesa – e dirti “eccoti qua, sei stato otto ore lontano da me e domani farai altrettanto. E appena accendi c’è la De Filippi, idiota!”.
Ed io inebetito davanti a quella lucina, immaginando che questa prenda animisticamente vita e si antropomorfizzi quel tanto da farmela cascare definitivamente sul cazzo.

Otto ore.

Che mi aspettano domani.

E la cosa che più mi spaventa?
Che sono quelle otto ore a crearmi disagio. Non l’idea che un altro giorno sia passato, anonimo.
Senza tregua, senza differenze dal precedente.
Senza macerarmi rispetto al vero problema.
Che non sono le otto ore.
Ma quando non avrò più le otto ore ad infastidirmi, dal buio di una cassa di zinco, un metro e mezzo sotto terra. Scoprire magari che sei pure allergico, allo zinco. Ed avere immani difficoltà di curare una dermatite, là sotto. In ogni caso niente ASL.

E’ questo il peggio. Fingere di essere infastiditi da otto ore di vita parziale. Quando mi attende una non-vita eterna. Di quelle da buio infinito. O come sarà.

“È una caratteristica propria del nostro spirito immaginare disordine e oscurità là dove non sappiamo nulla di certo”, sì Werther. Fottiti.

Vedere ipocritamente insofferenza in qualcosa che allora mi sembrerebbe Disneyland rispetto a quei merdosi vermi che mi scarnificheranno, infischiandosene del mio curriculum e del mio saper configurare un cellulare.

E allora ho pensato: benedette siano queste otto ore. Perchè sono vivo. Otto ore di lavoro, meravigliosamente vive e vitali perchè vivo e vitale sono io.

E tutto ha assunto una nuova luce; forte, accecante ottimismo.

Allora ho messo da parte questi pensieri colorati, sorridenti. Ho accantonato e messo in cascina un raccolto fatto di nuova gioia, speranza anche.
E ho ripensato in modo davvero diverso, per la prima volta, alle otto ore di lavoro.

E sapete cosa è accaduto?

Mi sono di nuovo girati i coglioni.