Domizia

[racconto dei tempi che furono]

della serie: l’amore è eterno. Finchè dura.

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DOMIZIA

C’era un fottìo di gente in palestra.

I soliti, quelli di sempre, quelli del cenno col capo per salutarsi, quelli che “sempre qua stai?!”, quelli che se muoiono sotto un autotreno non ti cambia un cazzo.

E c’era lei, una donna disegnata manu propria da Dio.

Domizia si chiamava, me lo disse l’istruttore.

Domizia.

Ed io non riuscivo a sollevare un grammo, a fare un piegamento, a irrigidire alcunchè. No, niente. Troppo bella Domizia.

Domizia era disegnata per lasciare lobotomizzati gli uomini, ma di piu’, per uccidere ogni altra idea di donna.

Un napalm per qualsiasi altra ragazza presente: azzerata, bruciata, annientata.

E per me questo valeva in modo ancor più esasperato: Domizia incarnava la mia personale idea di celestialità, di bellezza per la bellezza.

Avrebbe potuto essere del tutto priva di capacità cognitive e l’avrei amata comunque. Se non di piu’.

Domizia era l’assoluto.

Nulla piu’ sarebbe stato come prima dopo Domizia.

Io sapevo che mai, mai, mai piu’ avrei potuto amare qualcun’altra.

[…]

L’odore del sudore obeso cominciava a stagnare: le finestre avrebbero dovuto essere aperte ma in un pur caldissimo febbraio s’era comunque in febbraio, pure se fuori germogliavano fiori di cactus, cosi’ l’ambiente veniva tenuto sigillato.

Certi odori sono tipici di un luogo: la mia palestra sa di mia palestra. Nessun altra palestra potrà mai riprodurre quel medesimo odore. E’ un misto di corpi umani, pareti, colle viniliche, attrezzature, menta, caffè, tappetini in silicone, bandane che solo in quel luogo è possibile apprezzare con quei toni, quella precisa miscela.

La palestra dove andavo prima, ad esempio, dava piu’ sul dolce-esotico: ci trovavo anche un vago sentore di incenso e muffa di presepe.

Fin da piccolo ho avuto questa mania per gli odori: dicevo a mia mamma che la casa della sua amica aveva un odore strano, che non mi piaceva. Lei non capiva.

Sto divagando.

Domizia invece sapeva di buono.

Domizia era afrore di costa del Pacifico, un vento dell’Oregon selvaggio ma addomesticato quel tanto per non spaventare.

Le passai accanto innumerevoli volte, ne sentivo non solo la voglia ma una sorta di necessità, come fosse la mia camera iperbarica.

Se ne accorse.

E mi sorrise.

Ma a me usci’ solo una sorta di ghigno strozzato. Sorpreso.

E piantai tutto.

Feci una rapida doccia e mi misi là fuori, ad aspettarla.

– Domizia! – pensavo, mentre l’acqua scioglieva le leggere striature bianche di sale dalla mia pelle.

– Domizia! – nulla più, mentre chiudevo gli occhi e reclinavo il capo all’indietro per lasciarmi riempire la bocca da quel soffione caldo.

– Domizia!

Mi misi seduto al tavolino del bar per aspettarla.

Cosa le avrei detto?

Come avrei iniziato una conversazione con una donna sicuramente abituata a mosconi ronzanti intorno ad ogni passo?

– Ma no, che vai a pensare – mi dissi. – Se non tu, chi?

Cercavo coraggio.

Ed eccola, uscire dallo spogliatoio ancora piu’ bella di come l’avevo vista: indossava qualcosa di un colore indefinibile, o forse era lei a rendere tutto cosi’ etereo.

Un morbido scialle rosso pareva formare coreografie di danza scenica ad ogni suo movimento.

Era uno spettacolo vederla camminare.

Era uno spettacolo vederla respirare.

Era uno spettacolo.

Domizia.

– Ciao, io sono…

– Massimiliano, giusto?

– Eh? Uh! Sì, ma come…

– Me l’ha detto l’istruttore…

– Ah, sì…

– Io sono…

– Domizia. Me l’ha detto l’istruttore.

– Ahahah… [Dio come rideva, era Atena mentre tesseva, era Diana con il suo arco. Lei era.]

– Ahahah [ero ubriaco di lei. Completamente.]

Si parlo’ per alcuni minuti di palestra, di esercizi, di non so nemmeno io cosa: non riuscivo ad essere lucido.

Mi riempivo gli occhi ad ogni suo muover le labbra.

Quei capelli avrebbero insegnato ad un pittore l’arte del colore.

Quel viso non era di questa terra.

Quegli occhi – Dio mio – quegli occhi saettavano vita!

Ci si salutò, non prima di aver preso accordi sul prossimo appuntamento in palestra: “per vedere insieme come correggere la scheda” le dissi.

E quei giorni di attesa furono per me motivo di ansia e speranza.

Contavo le ore, cercai di immaginare ogni sua frase e la miglior risposta possibile.

Quando la rividi, sempre in palestra, avevo il cuore in gola: la ricordavo come l’essere piu’ perfetto dell’universo ma quando mi si paro’ davanti capii di essermi sbagliato: non era di questo universo. Era Dio!

Si accorse del mio restare pietrificato e mi diede un buffetto scherzoso sulla guancia:

– Tutto bene?

– Eh? Certo! Benissimo – risposi stordito.

Insomma da quel giorno divenni una sorta di personal trainer: le stavo sempre appiccicato, non permettevo a nessuno di avvicinarla e lei pareva gradire questo mio interessamento. E la cosa mi mandava in estasi.

Trascorsero cinque settimane in questo modo.

Credo ci innamorammo. No, io lo ero sin dal primo istante.

La prima volta che la baciai ebbi una sorta di orgasmo, non so spiegare, non voglio spiegare.

Poi?

Poi…

Accadde che com’era entrata nella mia vita cosi’ spari’.

Domizia non era piu’ quella Domizia: da un giorno all’altro il colore della sua pelle muto’ radicalmente, lo splendore che emanava si affievoli’. I suoi movimenti persero quella grazia divina.

No, nessuna malattia, nessun problema a quella che era stata l’incarnazione di Dio in terra.

Semplicemente, quel giorno, in palestra, entro’ Rachele.

Rachele era disegnata per lasciare lobotomizzati gli uomini, ma di piu’, per uccidere ogni altra idea di donna.

Un napalm per qualsiasi altra ragazza presente: azzerata, bruciata, annientata.

E per me questo valeva in modo ancor più esasperato: Rachele incarnava la mia personale idea di celestialità, di bellezza per la bellezza.

Avrebbe potuto essere del tutto priva di capacità cognitive e l’avrei amata comunque. Se non di piu’.

Rachele era l’assoluto.

Nulla piu’ sarebbe stato come prima dopo Rachele.

Io sapevo che mai, mai, mai piu’ avrei potuto amare qualcun’altra.

[…]